…canaglia

La tzedakàh, quel particolare genere di giustizia che è la carità, l’aiuto dato a chi ha bisogno, riceve nell’ebraismo un’attenzione che va al di là della normale concezione della solidarietà umana. Anziché considerarla un atto di pura generosità, l’ebraismo considera la tzedakàh un dovere bello e buono, senza il quale l’ebreo non è a posto con la propria coscienza e con l’adesione ai principi che gli consentono di riconoscere la propria identità. Si sa che è meritorio aiutare il prossimo senza farsi riconoscere, e magari anche senza che il beneficiato conosca l’identità del suo benefattore (Talmud Bavlì, Bava Bathrà 10b). Sembra che proprio questo sia il genere di tzedakàh che “affranca dalla morte” (Proverbi 11:4). Abbasso l’egoismo, quindi: “E quando sono solo per me stesso, chi sono mai? E se non ora quando” (Pirke’ Avoth 1:14).
Riconoscere il bisogno dell’altro e soccorrerlo è riconoscere la sua esistenza, ma anche la nostra dipendenza da lui. È un modo, per noi, di riconoscere Dio.
Quando credi di aver raggiunto, nell’ebraismo, il nocciolo della sua verità, arriva spesso, tuttavia, il momento in cui una svolta improvvisa, o un’aggiunta inattesa, ti costringe a un ulteriore impegno sulla strada della comprensione e si rimette in moto l’interrogazione. Per una sana deviazione dall’ideale etico più puro al realismo del quotidiano.
Dunque, soccorrere nel bisogno è un dovere, e un dovere è salvaguardare la dignità di colui che si soccorre, ma si sa che talora chi ha bisogno esagera nelle sue richieste e approfitta dell’aiuto che riceve. C’è dunque una canaglia potenziale nel mendicante, che fa da contrappeso alla canaglia che c’è in noi quando siamo tentati di tirar dritti davanti al bisogno degli altri. Quella canaglia è il pungolo necessario a stimolare la nostra esitante generosità. “Su, dobbiamo esser grati alle canaglie, ché se non fosse per loro avremmo peccato ogni giorno [non aiutando il bisognoso secondo le nostre possibilità]” (Talmud Bavlì, Kethuboth 68a).
I Maestri scoprono impietosamente la debolezza del nostro animo umano e la contorta psicologia che guida le nostre azioni.

Dario Calimani, Università Ca’ Foscari Venezia