Ticketless – Un fantasma ritrovato
Il libro di Marco Francesco Dolermo, Il sionista che amava l’islam. Raffaele Ottolenghi (1860-1917), appena stampato da Zamorani editore, presenta non pochi motivi di interesse. Intanto rafforza l’idea che l’ebraismo abbia dato un contributo di rilievo alla diplomazia italiana. Prima di Paolo Vita-Finzi, Enrico Terracini e Vittorio Dan Segre, Ottolenghi ricoprì nei consolati del Cairo e poi di New York, quando era giovanissimo, un ruolo importante di cui purtroppo è rimasta scarsa documentazione. Quello della presenza ebraica in ambasciate, consolati, poi Istituti italiani di cultura, fra Otto e Novecento, è un affascinante capitolo di storia che richiederà un giorno di essere approfondito. Ottolenghi è poi da considerare pioniere di una altrettanto dimenticata genealogia: quella degli studiosi ebrei attratti dall’Islam. Pensare che possano esistere nel 2017, tanto più nelle ore infuocate che viviamo, ebrei socialisti che studiano l’Islam (e viceversa) è utopia pura.
Raffaele Ottolenghi è una figura interstiziale. Senza volerlo si è trovato spesso al posto giusto, nel momento giusto. L’aver affittato in Piazza Carignano a Torino la stanza attigua a quella dove Nietzsche perse il senno fa della sua testimonianza una fonte indispensabile per i biografi del filosofo di Zarathustra.
Analogo effetto di rispecchiamento sui nostri turbinosi tempi offre la rievocazione della visita di solidarietà al ghetto romano (1905) da parte di Paolo Orano, compagno di partito di Ottolenghi. Un’amicizia socialista. Ottolenghi morirà troppo presto per vedere quali diventeranno le posizioni del suo amico nel 1938. Il giovane Orano, nel 1905 aveva compiuto un gesto temerario per i suoi tempi negli anni in cui si diffondevano le notizie dei crimini zaristi.
Di capriole effettuate dai socialisti, e non solo da loro, di amizicie tradite ne conosciamo a centinaia, quella di Orano, intuita da Ottolenghi, ha dell’incredibile.
Alberto Cavaglion
(3 gennaio 2018)