Periscopio – La pena di morte

lucreziPer principio, mi astengo sempre dal giudicare le scelte politiche dei cittadini, del Parlamento e del governo israeliani, limitandomi a interpretarne le possibili ragioni, il significato, gli effetti, il modo in cui vengono recepite e accolte dagli osservatori e dall’opinione pubblica degli altri Paesi. Evito di giudicare non perché – ovviamente – cittadini, Parlamento e governo d’Israele non possano assumere decisioni criticabili, dalle quali posso dissentire, anche in modo netto, ma semplicemente perché – come ho già spiegato in altre occasioni – ritengo molto comodo emanare sentenze riguardo a opzioni che possono avere dirette e drammatiche conseguenze sul piano della sicurezza – nel presente e nel futuro -, stando comodamente seduto nella poltrona di casa mia, sapendo che, qualsiasi cosa accada da quelle parti, io potrei solo commentarla in qualche conferenza o discussione pubblica, o nei miei articoletti settimanali, ma senza, in ogni caso, correre alcun rischio e pagare alcun prezzo personale. Ho sentito spesso dire, da parte di amici di Israele, che Israele dovrebbe fare così o colì, la pace o la guerra, levare le colonie o metterne di nuove ecc. Tutte idee, in teoria, ottime, o pessime, che però, a mio avviso, sarebbero legittimati a esprimere solo coloro che vivono in quel Paese, pagando le tasse, svolgendo o avendo svolto il servizio militare, sapendo che le conseguenze positive o negative di scelte buone o cattive ricadranno direttamente su di loro e sui loro figli o nipoti.
Stavolta faccio, però, un’eccezione, nel commentare la proposta di legge, in corso di discussione presso la Knesset, volta rendere meno difficile l’irrogazione della pena capitale (già teoricamente possibile, ma in pratica mai comminata) a carico dei responsabili di atti di terrorismo particolarmente gravi, odiosi e sanguinosi.
Sono contrario. E non solo per le molte e variegate ragioni che mi inducono, in generale, a essere sempre contrario alla pena di morte, in qualsiasi luogo del mondo – e che non c’è spazio, in questa sede, di riportare: ma sono ragioni facilmente immaginabili -, ma anche per dei motivi supplementari, che riguardano specificamente Israele, e che esprimerò alla fine di questa nota. Prima di farlo, però, formulo, sinteticamente, alcune considerazioni che potrebbero teoricamente portarmi a comprendere e condividere alcune delle ragioni dei fautori della proposta.
Innanzitutto, la pena capitale non basta, da sola, a qualificare il livello di civiltà giuridica di un determinato Paese, che è dato da molteplici fattori, quali lo stato di diritto, l’indipendenza della magistratura, il sistema di garanzie, la pubblicità dei processi, l’effettività del diritto di difesa, il controllo dell’opinione pubblica ecc. Tutti standard che in Israele sono elevatissimi, nonostante il perenne stato d’emergenza, e rendono quel Paese un modello che tutto il mondo dovrebbe cercare di imitare. Nessuna persona ragionevole potrebbe mai dire che la moralità d’Israele sia stata incrinata l’unica volta in cui la pena capitale è stata irrogata e applicata, nel 1961, a carico di Eichmann. Una condanna giusta, emanata in forza di leggi giuste, a seguito di un processo giusto, in un Paese fondato – come recita la Dichiarazione di Indipendenza – sugli ideali di giustizia dei profeti dell’antico Israele.
In secondo luogo, non sono infondate le motivazioni dei fautori della modifica legislativa pro-pena capitale, laddove fanno notare che ogni pena detentiva a carico di terroristi arabi, in Israele, rischia di essere vanificata da qualche possibile scambio di prigionieri, in forza del quale centinaia o migliaia di spietati assassini possono essere rimessi in libertà in cambio di un solo soldato israeliano, colpevole di niente altro che di avere assolto al proprio dovere (come nel casi di Gilad Shalit). Ciò crea certamente una grande disparità di trattamento: nessuno chiederà mai uno scambio di prigionieri per Ygal Amir, l’uccisore di Rabin, che resta, perciò, giustamente, in prigione. Ma perché tanti altri assassini, che hanno fatto tante più vittime di lui, devono invece potere acquistare la libertà? La pena di morte eliminerebbe, nei casi in cui venisse applicata, questa palese asimmetria.
Terzo: delle critiche avanzate dai Paesi europei, in nome dei diritti umani, non deve importare un fico secco. Nessuna lezione di morale da parte di chi assiste indifferente all’uccisione di civili innocenti, andando a braccetto con i mandanti degli assassini.
Resto, però, fermamente contrario. Da non credente, penso che al mondo non ci sia niente di “sacro”, e quindi neanche la vita umana. Era forse “sacra” la vita di Hitler? E non è neanche vero che lo stato – uno stato civile e democratico – non possa mai decidere chi debba vivere o morire. Lo fa, per esempio, in guerra. Ma la guerra – quantunque regolata anch’esse dalle sue leggi – risponde a una logica del tutto diversa da quella del diritto: “silent leges inter arma”, scrisse il saggio Cicerone. Erroneamente, perciò, è stato evocato, come paragone, il caso delle cd. uccisioni mirate, che sono delle operazioni belliche, effettuate a seguito di legittime valutazioni militari, non di un processo.
Il diritto, per tante ragioni, non è il terreno adatto sul quale decretare la morte di qualcuno. E, quanto a efficacia sul piano della deterrenza, se è dimostrato che, in generale, la durezza della pena non vale a trattenere il potenziale delinquente dal gesto criminale, tanto meno essa può funzionare per la mente bacata e distorta dei martiri suicidi, che la morte, per definizione, la cercano. Perché accontentarli? Prima di sopprimere loro, bisognerebbe colpire quei genitori, quei maestri, quei predicatori e quei politici che hanno riempito le loro teste di veleno e spazzatura (standosene, fra l’altro, sicuri a casa loro).
Ma, soprattutto, ho sempre pensato che il dramma del Medio Oriente affondi le sue radici non in problemi di confini, capitali o cose del genere, ma, più semplicemente, nell’enorme distanza che separa, in termini di umanesimo, cultura e civiltà, Israele da molti dei suoi vicini. Tel Aviv da Gaza, Gerusalemme da Teheran, Beer Sheva da Beirut, Haifa da Damasco. Penso che la pace verrà da sola, cadendo come un frutto maturo, allorché questa distanza si sarà per lo meno sensibilmente ridotta. Ma la domanda principale è questa: vogliamo che siano gli altri ad avvicinarsi a Israele, oppure che sia il nostro piccolo, grande, amato Paese a fare un passettino (piccolo, forse: ma comunque un passettino, e comunque pericoloso) verso di loro?
P.S. Nel licenziare questo articoletto, so che non potrò ricevere, come spesso accadeva, le parole di commento di Lucia Roditi Forneron. C’è un ristretto gruppetto di miei fedeli lettori i cui volti ricordo, uno per uno, prima di inviare i miei piccoli pezzi, pensando di intrattenere con loro – in ragione di una particolare stima – un vero e proprio dialogo. Tra questi, Lucia. Attento, mi dicevo, a quello che scrivi, ricorda che Lucia ti leggerà. Avrebbe apprezzato questo che ho scritto? Non lo so, so solo che continuerò a scrivere, per sempre, come se lei mi leggesse.

Francesco Lucrezi, storico