ORIZZONTI Venezuela, la resilienza ebraica contro la crisi
Uno dei divieti in vigore di Shabbat è il trasporto di oggetti. Per questo David, giovane ebreo venezuelano, non ha con sé né portafoglio né cellulare mentre si avvia verso la sinagoga di Caracas. Lungo la strada, due uomini armati lo fermano e gli ordinano di consegnarli tutto quello che ha. “Come fai a spiegare, in una situazione del genere, a due persone che ti puntano la pistola e che vogliono rapinarti che non hai nulla con te perché è Shabbat?”. In un Venezuela considerato il secondo paese più violento al mondo – escluse le zone di guerra – , in cui nel 2016 sono stati registrati 28,479 omicidi (per fare un confronto, in Italia nello stesso anno sono stati 397), non è raro che una rapina finisca in tragedia. “Pensavano li prendessi in giro e ho veramente temuto per la mia vita”, racconta il 26enne David, che fortunosamente riuscì a scamparla. A Caracas, David è cresciuto e l’ha vista precipitare sempre più nella violenza, nella rabbia e nella povertà. “Ho visto con i miei occhi uomini in uniforme rovistare nella spazzatura per cercare da mangiare e poi andare a lavoro”. Uno studio sul Venezuela (Encuesta Nacional de Condiciones de Vida) racconta di un Paese in cui la povertà estrema misurata in termini di reddito è passata dal 24 per cento del 2014 al 52 del 2016. “Come fa una nazione così ricca di materie prime ad essersi ridotta così? La dittatura ci soffoca, sugli scaffali mancano cibo e medicine” spiega ancora David Kauffman, che nonostante tutto ha scelto di rimanere a Caracas mentre la maggior parte delle persone che si sono diplomate con lui alla scuola ebraica hanno lasciato per gli Stati Uniti, per altri paesi dell’America o per Israele. “Su 120, 100 dei miei compagni hanno abbandonato il Paese e non credo torneranno. Qui la speranza di un futuro è sempre più debole”. A Caracas David gestisce la sua azienda e continua a frequentare la comunità ebraica, passata dalle 25mila persone di qualche anno fa alle 9mila attuali. Un esodo iniziato circa 20 anni fa e aumentato in modo verticale negli ultimi anni a causa della profonda crisi che ha segnato il Venezuela, una volta oasi di prosperità: negli anni ’70 la ricchezza pro capite dei venezuelani era la più alta del Sudamerica e questo aveva attirato famiglie come quella di Gabriel Simkin. “Mio bisnonno paterno, Feivel Brecher, scappò dall’Europa poco prima dello scoppio della Seconda guerra mondiale. Partì da Genova e salpò alla volta di Cuba”. Da lì la famiglia si spostò a Cuba, poi Colombia e infine Venezuela dove si era trasferita anche la parte materna dei Simkin, che da Israele aveva scelto Caracas per le prospettive che negli anni ’70 la città offriva. Ma negli anni Ottanta e Novanta la “maledizione delle risorse” che affligge molti paesi ricchi di minerali, soprattutto di greggio, cominciò a palesarsi anche nel paese sudamericano: la mancanza di investimenti diversificati in altri settori, rimasti indietro, fece crescere le diseguaglianze, scrivendo il primo capitolo della profonda crisi attuale. Come raccontava il premio Pulitzer William Finnegan sul New Yorker (Venezuela, a failing state – 14 novembre 2016), dopo la nazionalizzazione del petrolio nel 1976 e anni di capitalismo clientelare, politiche irresponsabili e saccheggio delle ricchezze nazionali, arrivò Hugo Chavez che si presentò ai venezuelani come la soluzione di fronte alla deriva del paese: dopo aver fallito un colpo di Stato ed essere stato incarcerato per questo, Chavez – profondamente innamorato della storia del rivoluzionario Simon Bolivar – fondò una volta libero il piccolo partito di sinistra, Movimiento V república, e qualche anno dopo vinse facilmente le elezioni presidenziali. Chávez promise di fermare il saccheggio delle materie prime “e, a un certo punto, – racconta Finnegan – dirottò una maggiore percentuale delle vendite del petrolio verso le politiche per la casa, l’istruzione e l’assistenza sanitaria per i più poveri. Il tasso di povertà, altissimo prima della sua vittoria, fu quasi dimezzato. Come molti suoi predecessori, il leader bolivariano aveva capito che bisognava ridurre la dipendenza del paese dal greggio però successe esattamente il contrario: Chávez aumentò il controllo dello Stato sull’industria petrolifera e confiscò le fabbriche e le grandi aziende agricole private. Tuttavia con la nuova gestione molte aziende fallirono, le esportazioni non petrolifere diminuirono e l’economia produttiva calò a picco”. La crisi globale del 2008-2009 diede la prima profonda spallata a una società già provata da una violenza criminale in continua crescita e che Chavez considerava il prodotto della povertà, della diseguaglianza e del capitalismo. Risolto quello, l’equazione chavista, si sarebbe detto addio criminalità. Fu vero il contrario. E intanto il caudillo venezuelano passava il tempo a stringere alleanze con Cuba e con altri paesi dell’America Latina, dell’America Centrale e dei Caraibi, creando un blocco strategico ed economico per contrastare la tradizionale egemonia degli Stati Uniti. Guardando al Medio Oriente, aprì la porta all’Iran, al Libano e ai palestinesi. Secondo il giornalista spagnolo Antonio Salas, infiltratosi per sei anni in una rete di terrorismo islamista internazionale, in Venezuela si sono addestrati sotto Chavez sia terroristi palestinesi sia miliziani del movimento terroristico libanese Hezbollah (nel 2006 a Caracas qualche migliaio di persone scese in piazza contestando l’intervento israeliano in Libano e sventolando le bandiere gialle di Hezbollah). Il leader bolivariano espresse più volte pubblicamente il suo disprezzo per Israele, che definì Stato terrorista e nel 2009 tagliò i rapporti con il governo di Gerusalemme espellendo l’ambasciatore dal Paese. “Ufficialmente i suoi discorsi non erano antisemiti ma antisionisti”, spiega David, che in Israele ha vissuto un anno (la Shnat Hachshara). “Ma il clima per la comunità ebraica si è fatto sempre più pesante. Nel 2009 la sinagoga di Caracas fu attaccata durante la notte e vandalizzata da quattro poliziotti in borghese, poi arrestati”. Di fronte a un ambiente ostile, racconta ancora David, a lungo membro del Maccabi (l’organizzazione sportiva ebraica che in Venezuela è la realtà più popolare tra i giovani), la Comunità ebraica venezuelana ha sviluppato una coraggiosa forma di resilienza. “Diversi anni fa ashkenaziti e sefarditi hanno deciso di superare le differenze e costruire un grande centro per tutto l’ebraismo di Caracas: è così è stata realizzata una scuola ebraica per tutti, un polo culturale e sportivo aperto all’intera Comunità (il Centro Social Cultural y Deportivo Hebraica, con piscine, campi di calcio, da basket)”. Divergenze e diffidenze sono state messe da parte per mantenere viva e coesa la comunità e dare una possibilità ai giovani di crescere insieme in un contesto ebraico. “Il problema qui non è l’antisemitismo, il problema è che c’è un paese allo sbando. Noi venezuelani siamo stati a lungo troppo naive, abbiamo accettato una situazione che non faceva che peggiorare. Negli ultimi tempi siamo scesi in strada per manifestare contro la dittatura – l’analisi di Kauffman – ma le proteste sono state sedate con la violenza e l’opposizione è stata spazzata via”. Nicolás Maduro, ex autista di autobus, designato da Chávez come suo erede, ha infatti represso con la forza le manifestazioni: tra aprile e agosto ci sono stati più di 130 morti, diecimila feriti e tremila arresti, tra cui 500 oppositori politici. Con un colpo di mano Maduro – che ha una vena mistica e ha detto al paese che un uccellino gli porta notizie del suo predecessore dall’oltretomba – ha ripreso totalmente la guida della nazione dopo essere stato messo sotto accusa dalle opposizioni. “Ora se vai all’aeroporto – racconta David – e ti trovano per dire una foto nel cellulare di una manifestazione anti-Maduro possono incarcerati o come minimo di prendono il passaporto e non puoi più partire”. Una delle persone contattate per questo articolo ha declinato l’invito a parlare, spiegando di avere paura di ritorsioni. Sia David sia Gabriel – che vive a New York con il fratello ma la cui famiglia è a Caracas – quando parlano del Venezuela, parlano di “un paese bellissimo, dove si viveva bene, dove tutti gli espatriati tornerebbero se ci fossero le possibilità”. Descrivono con affetto l’essere cresciuti nella Comunità ma sul futuro entrambi pongono un grande interrogativo: non c’è rassegnazione ma un pragmatico pessimismo che le cose per molto tempo non cambieranno. “Otto anni fa quattro persone sono entrate in casa mia. Saranno state le 10-11 di mattino. Fuori c’era gente che lavorava. Non so nemmeno come abbiano fatto ad introdursi. Erano armati e volevano rapinarci. Mio padre e mio fratello hanno opposto resistenza e si sono beccati delle pallottole nelle gambe. Quello è stato il click che ha spinto la famiglia a spingerci a lasciare il Venezuela per New York” racconta Gabriel senza scomporsi troppo. Una violenza vissuta sulla sua pelle, diventata quotidianità per un intero paese passato dall’essere un’oasi felice a una delle realtà più violente al mondo. “Sì spero di tornare, il prima possibile. Ma ora non so proprio quando lo sarà” afferma Gabriel. Come lui, tanti venezuelani, ebrei e non, che sognano da lontano un Venezuela diverso. Lo stesso che vorrebbero quelli che hanno scelto di rimanere.
Daniel Reichel, Pagine Ebraiche, gennaio 2018