Un albero di carrube

rav momiglianoIl midrash che narra di “un vecchio che stava piantando un albero di carrube”, a cui accenna nel suo intervento di ieri Giorgio Berruto, citandolo da un libro del teologo di origine ebraica Paolo De Benedetti, è in effetti, nelle sue diverse versioni originali dei testi rabbinici, un racconto molto più complesso, articolato e ricco di contenuti di quanto possa, apparire non solo nella citazione di fonte non ebraica, qui in oggetto, ma anche in altri richiami, anche di parte ebraica che si limitano a riassumere quello che, a prima vista, appare il messaggio principale.
Innanzitutto si deve premettere che, come è proprio del midrash narrativo, il senso più profondo va ricercato non tanto nel significato letterale del racconto, quanto nella comprensione dei messaggi che il testo intende trasmettere, attraverso un insieme di immagini ed episodi a valenza simbolica ed emblematica. E’ anche utile tenere conto che esistono due diverse versioni di questo midrash, nelle quali varia totalmente l’identità e il contesto dell’interlocutore che si rivolge al vecchio contadino chiedendogli il motivo per cui si affanna a piantare alberi di cui verosimilmente non vedrà i frutti. Nella versione riportata nel Talmud babilonese (Taanit 23a), l’interlocutore è un importante e singolare figura rabbinica, vissuto nell’epoca del 2° Tempio, due secoli circa prima dell’era volgare, chiamato Chonì Ha-mehagghel che letteralmente significa “ Chonì che traccia il cerchio”. Il nome di questo personaggio è dovuto ad un episodio, narrato nel testo talmudico poco prima dell’episodio del vecchio contadino; il Talmud ci narra che Chonì, cui veniva riconosciuto un legame di straordinaria confidenza con il Signore, si rivolge in preghiera a D.O per implorare la discesa della pioggia in un periodo di gravissima siccità, nel corso di questo intenso dialogo con il Signore, per conferire un carattere di straordinaria urgenza alla sua preghiera, egli traccia sul terreno un cerchio dichiarando che non sarebbe uscito da quel solco finchè non fosse discesa pioggia nella quantità giusta e necessaria, affermazione che mantiene e che il Signore asseconda mandando infine la pioggia tanto attesa. Il sorprendente comportamento di Chonì, appare irriverente ad alcuni Maestri, che lo accettano solo in quanto la condiscendenza dimostrata dall’Eterno viene interpretata come segno che tale atteggiamento era gradito a D.O, come quello di un figlio vezzeggiato dal genitore. Si può dire che Chonì rappresenti nel midrash una persona che, per particolari doti personali ed un imperscrutabile giudizio divino, vive in una straordinaria e miracolosa dimensione, che gli consente di attendere da D.O la piena e sollecita realizzazione dei desideri, ovviamente mirati non ad un interesse personale ma al bene collettivo. Nel midrash che narra dell’incontro con il vecchio contadino, questa dimensione “miracolosa” della vita, proprio in quanto legata alla tempestiva realizzazione di un desiderio, appare segnata da una debolezza intrinseca, ovvero l’incapacità a comprendere la dimensione naturale dell’esistenza umana, in cui i frutti della fatica e la realizzazione di un sogno o di un concreto desiderio spesso appaiono dopo lungo tempo e talora possono essere colti solo dai figli o dai nipoti. Il protagonista del dialogo con il vecchio contadino è dunque Chonì, che si stupisce della fatica messa in atto dall’anziano per dei frutti di cui non potrà godere e sembra rimanere senza parole nell’ascoltare la spiegazione di quello che gli dice “Come i miei padri li hanno piantati per me, così io li pianto per i miei figli”. Qui naturalmente risalta il messaggio di responsabilità verso le successive generazioni, però dal testo del Talmud emergono altri contenuti; l’episodio dell’incontro con il vecchio contadino è infatti riportato in collegamento ad una difficoltà che Chonì nutriva nella comprensione di un passo biblico, un versetto dei Salmi in cui si accenna al ritorno dall’esilio come ad un’esperienza paragonata al trascorrere di un sogno: “Quando il Signore ci fece tornare a Zion era come fossimo stati in un sogno” (Salmi 126,1). Chonì, a quanto pare, interpretava il versetto come svolgesse un paragone tra il ritorno degli esuli d’Israele dalla Babilonia e il risveglio da un sonno, come se il passo biblico volesse dire che l’esilio in terra straniera in fondo era stato simile ad brutto sogno, un tempo sospeso, che si era concluso; questo paragone risultava incomprensibile a Chonì, perché nella realtà l’esilio era durato settant’anni, lo spazio di una vita intera, come era possibile paragonarlo ad un sogno? Soprattutto il paragone poteva apparire inadeguato rispetto a tutti coloro che il ritorno non lo avevano potuto vedere, coloro i quali non avevano scorto il risveglio, per tutti questi, che significato poteva aver avuto la vita, nel concreto, in simili condizioni? Ci poteva essere stata speranza, consolazione per quanti avevano potuto sentire e poi constatare che non loro ma , forse, solo i figli o i nipoti, avrebbero rivisto la terra perduta? L’incontro con il vecchio può avere il senso di una risposta articolata; il duro lavoro cui l’anziano non rinuncia, per dare ai figli la possibilità di mangiarne i frutti, così come egli aveva mangiato di quanto piantato dai suoi padri, può simboleggiare il senso dell’esilio per il popolo ebraico, questo non va inteso come una dimensione sospesa fuori dal tempo, in cui semplicemente si attende “il risveglio da un brutto sogno”, l’esilio è il tempo della vita e della morte, del lavoro e della fatica, materiale e spirituale, i cui frutti molti non vedranno personalmente ma che al tempo stesso fanno parte di un’eredità che si trasmette, e si deve sviluppare, di generazione in generazione. Il riferimento all’albero di carrube non è casuale, ha un significato simbolico che non è legato solo al lunghissimo lasso di tempo che il midrash attribuisce alla crescita dei frutti di questo albero; il carrubo compare in altri midrashim legati alle più grandi figure di Maestri, è infatti una pianta di carrube che alimenta rabbì Shim’on bar Yochai nella grotta in cui deve a lungo rifugiarsi per sfuggire alle persecuzioni dei Romani e dove si dedica intensamente allo studio della Torah ed è una pianta di carrube che compare con segni miracolosi nel famoso midrash (Talmud bavlì Bavà Metzià 59b) in cui R. Eliezer cerca di comprovare le sue argomentazioni, contro quelle degli altri maestri con dimostrazioni che giungono dall’Alto. Il frutto del carrubo rappresenta quindi anche il contenuto di Torah che viene trasmesso e sviluppato dai padri ai figli, dai maestri agli allievi. E’ in questo legame di generazioni che si alimenta la fiducia e la speranza, per continuare ad operare in vista di un frutto, il “ritorno”, anche questo non solo alla terra ma alla condizione di pienezza spirituale, che forse vedranno solo i figli o i nipoti. Sembrerebbe tutto risolto, se non che il midrash ha ancora un ulteriore sviluppo, Chonì si addormenta e si risveglia dopo un lunghissimo sonno durato settant’anni, in una sorta di dimensione surreale, incontra i nipoti del vecchio che effettivamente mangiano i frutti dell’albero piantato dal nonno, incontra i suoi stessi discendenti, si reca nel Bet Hamidrash dove tutti ricordano le sue spiegazioni, ma quando egli cerca di identificarsi come Chonì si rende conto di non poter essere riconosciuto, ormai isolato da tutti non gli resta che implorare la morte che pone fine ad una condizione di solitudine, per lui ormai impossibile da sopportare. E’ una visione di immagini simboliche di non semplice interpretazione, forse significa la necessità, che il pensiero rabbinico intende ribadire, di vivere l’esilio nella dimensione concreta della vita e nel percorso naturale del tempo, compiendo tutti i passi necessari per arrivare al suo compimento, alla fine dell’esilio, piuttosto che rifugiarsi in una sorte di dimensione sovrannaturale, forse simboleggiata dai lunghi anni di sonno in cui giace Chonì, che alla fine rendono impossibile il ritorno alla dimensione reale della vita.
Non c’è qui possibilità di analizzare l’altro racconto parallelo, in cui il protagonista non è più Chonì ma l’imperatore Adriano e in cui passiamo in altro contesto e si aggiungono nuovi significati simbolici.
Le spiegazioni qui riportate di questo complesso e articolato midrash sono solo alcune fra diverse possibili letture , certo che il risalire alle fonti dirette di un testo rabbinico ci apre un mondo immensamente più ampio e profondo di quanto possa risultare da citazioni parziali, ebraiche o non ebraiche che siano. Per tutti non rimane quindi che l’invito “Tzè ulmad – va e studia”.

Giuseppe Momigliano