La società dell’interdizione
Da un lato c’è il profondo differenziale di potere, anzi, di poteri, che in questi ultimi anni si è fatto ancora più forte, esacerbato dalle trasformazioni introdotte dalla globalizzazione. Per coloro, siano donne o uomini, che si trovano posti ai margini non solo dei luoghi di comando ma anche di contrattazione, la posizione si può fare molto scomoda, avendo ben pochi strumenti per tutelare i propri diritti. Non è vero che «uno vale uno»: ognuno di noi è diverso dai suoi simili non solo per la sua personale storia ma anche per le differenti quantità di risorse con le quali può affrontare il mondo e le incombenze della vita quotidiana. Gli strumenti istituzionali offerti a chi si trova in posizione di oggettivo svantaggio per cercare di compensare, almeno in parte, la sua condizione, sono quindi indispensabili per garantire alla società una sua interna coesione. Troppe diseguaglianze, in altre parole, rischiano di smagliare e poi rompere il tessuto sociale. Dall’altro lato, tuttavia, c’è un rischio incombente: è quello per cui il vincolo sociale alla solidarietà e alla reciprocità (che dovrebbe essere sanzionato anche dalla fiscalità pubblica, redistribuendo la ricchezza prodotta collettivamente) si trasformi, da risorsa per garantire concreti diritti al maggiore numero possibile di persone, in qualcosa d’altro. Ciò avviene quando si passa da una logica universalista ad una particolarista. Ossia, quando dai diritti sociali si transita ad una visuale che enfatizza esclusivamente i diritti civili alla differenza, senza contemperare adeguatamente i secondi con i primi. Facciamo un po’ di chiarezza, per evitare letture equivoche di una questione delicatissima. Le differenze di identità, in tutte le loro varianti, sono il sale del pluralismo democratico. La sintesi di esse (e del loro riconoscimento nell’agone pubblico) concorre a comporre una società dove l’uguaglianza non implica in alcun modo l’uniformità, semmai coltivando invece la diversità. Tuttavia, questo vivace repertorio di identità, tanto numerose quanti sono gli individui che fanno parte di una collettività nazionale, deve incontrarsi con una politica dei diritti che non agevoli le persone esclusivamente in quanto membri di un qualche gruppo piuttosto che di un altro. L’uguaglianza nella cittadinanza, infatti, non può in alcun modo valutare l’individuo per le sue appartenenze: che siano politiche, civili, “etniche”, religiose, di genere o di qualsiasi altro tipo. Altrimenti, si introdurrebbero intollerabili discriminazioni di trattamento, spezzando, tra gli altri, il principio elementare e fondamentale dell’uguaglianza dinanzi alla legge. In altre parole, l’essere parte di un qualche gruppo, o l’identificarsi con esso, è una qualità della persone, ma non un presupposto della cittadinanza medesima. Si tratta, semplificando i concetti, di una questione privata e non di un affare pubblico (mentre invece lo diventa negli Stati dittatoriali e totalitari, dove alla solidarietà e all’uguaglianza si sostituiscono l’omologazione e l’uniformazione ad un unico canone). Discorso difficile e delicato, quest’ultimo, ma che va fatto, se non si vuole cadere nelle trappole dei luoghi comuni così come delle prediche moralistiche. Andiamo quindi al merito del discorso. Proprio gli abusi del cosiddetto «politicamente corretto» (segnatamente, una disposizione a considerare le cose della società che ci deriva dai paesi anglosassoni, non essendo nata nell’Europa continentale) sono figli di questa mancata sincronizzazione tra le differenti parti, laddove eguaglianza (diritti sociali) e diversità (diritti civili) dovrebbero invece incontrarsi continuamente. La prassi del politicamente corretto, infatti, sta all’una e all’altra così come il dito sta alla luna indicata dal proverbiale saggio. In poche parole, non maggiori diritti per tutti ma risarcimenti (solo) per certuni, ovvero coloro che sono indicati come “vittime” o sanno presentarsi come tali, battendo continuamente i pugni sul tavolo. Si traduce quindi, anche in una sorta di interdizione linguistica, in un tabù del dire, dove al concreto difetto di politiche di riconoscimento e di accesso ad un’eguaglianza non formale si risponde enfatizzando la primazia morale e civile di una differenza cristallizzata (quella che non corrisponde alla realtà dei fatti ma ad un’idea che ci si fa di quello specifico gruppo di “vittime”). La quale, in questa logica, andrebbe tutelata a prescindere, in quanto coloro che ne sono espressione e titolari sarebbero in perenne condizione di chiedere un inesauribile risarcimento per l’offesa subita. Non a caso vittimismo, piagnisteo ma anche ricatto morale sono tre componenti del politicamente corretto. Qui non si parla quindi di diritti condivisi, temperati dai concreti bisogni degli individui, ma di una sorta di perverso status che viene attribuito agli appartenenti di alcuni gruppi, senza che vi sia necessariamente alcuna relazione con l’effettiva condizione che queste persone vivono nella loro quotidianità. Una specie di meccanismo in automatico. Da ciò viene fatto derivare, nei confronti del resto della società (che costituisce la maggioranza), un obbligo di deferenza che non nasce dalla sincera convinzione che un tale comportamento risponda al giusto, bensì dal timore che facendo altrimenti potrebbe derivare una qualche sgradevole sanzione. Non importa di quale tipo. Siamo al di fuori della logica del convincimento (che è uno dei tratti della pedagogia democratica) mentre entriamo, a volte senza rendercene conto, dentro la dimensione della coercizione. Si tratta infatti di un rispetto obbligato, che a volte – se non quasi sempre – si trasforma in un grottesco vincolo di accettazione di inverosimili iniziative. Le vicende di questi ultimi mesi – dalle polemiche contro i monumenti di Colombo negli Stati Uniti (inviso poiché simbolo della colonizzazione, quindi “nemico” dei popoli autoctoni, le comunità indiane), alle fantasie sulla necessità di abbattere o cancellare i simboli residui della monumentalità e dell’architettura fascista (che turberebbero gli animi degli antifascisti), passando attraverso la proliferazione di disposizioni legislative di natura sanzionatoria nei confronti di condotte senz’altro deprecabili ma non necessariamente ascrivibili alla pura sfera della repressione penale – sono sintomo di questo disagio. Che deriva dall’incapacità (se non dall’indisponibilità) di tradurre in atti politici a beneficio dell’intera collettività ciò che, lasciato a sé, perde la sua natura di chiaro monito comune, diventando vacuo obbligo, e come tale sopportato. Per inciso, un tale modo di agire non ha nulla a che fare con la comprensione della complessità del processo storico e, insieme ad esso, con l’indagine su ciò che dei comuni trascorsi è stato omesso o sottovalutato o, peggio ancora, deliberatamente negato. A danno, concreto ed effettivo in questo caso, di persone e gruppi. Poiché ne costituisce una sgradevole pantomima, simulando una presa di coscienza quando, invece, rischia di rivelarsi una falsa consapevolezza. Non vi è infatti vera cognizione se non c’è assunzione consensuale nella discussione pubblica di quei temi che risultano altrimenti imposti da un’agenda scritta, ancora una volta, dai “più forti”. Non si combatte il femminicidio (che non è solo la brutale violenza dei maschi contro le donne ma la manifestazione di un differenziale di potere tra i generi che arriva a considerare queste ultime come degli oggetti senza alcuna dignità che non sia quella attribuita da un uomo padrone) riadattando il finale di un’opera dell’intelletto, universalmente conosciuta e rappresentata davanti al grande pubblico, per renderla più conforme allo spirito del presente. Non è solo la violazione di un testo. Questo modo di agire, insieme a tanti altri, rischia di rivelarsi una tentazione di riscrittura del passato (storico, artistico, letterario), una specie di orwellismo delle buone intenzioni, ad uso e consumo del momento. Nessuna minoranza, o parte più fragile della società, può peraltro considerarsi tutelata adeguatamente quando alla maggioranza sono imposte condotte che quest’ultima avverte come innaturali. Prima o poi ci si libererà di quanto è vissuto come un intollerabile giogo, buttandolo a terra e imputando al gruppo minoritario la colpa di avere manipolato a proprio vantaggio gli interessi collettivi. Se il diritto non è mai un favore, non può neanche trasformarsi in un privilegio. Nell’uno e nell’altro caso si è al di fuori delle dinamiche democratiche che implicano l’inclusione nella diversità attraverso il ricorso ai diritti di cittadinanza, non all’interdizione per mezzo del ricatto morale, nel nome del risarcimento di un qualche torto subito il cui onere ricadrebbe su tutti, innocenti ed estranei per primi.
Claudio Vercelli
(14 gennaio 2018)