amore…

“In quel giorno la mia ira arderà contro di lui ed Io li abbandonerò e nasconderò il Mio volto da loro”. “Tu sei un D-o che ti nascondi, o D-o di Israele, o salvatore!”.
“Chi è simile a Te, o Signore, tra i silenti, che vedi la confusione del Tuo popolo e taci?”.
“Se Egli resta impassibile, chi potrà condannarlo? Se cela il suo volto, chi potrà vederlo? Tuttavia Egli veglia sopra le nazioni e sugli uomini”.
Yov (Giobbe), un uomo solo di fronte all’Ester Panim, al nascondimento del volto di D-o. Yov cerca le ragioni dell’Ester Panim.
“Ma io voglio incriminare D-o onnipotente, è contro D-o che io voglio protestare”. Questo testo è un J’accuse! contro D-o.
“Non ti chiamerai più Yacov, ma Israel, perché hai combattuto con D-o e con gli uomini e hai vinto!”. Yov, come Israel, combatte con D-o e con gli uomini, e vince.
Il libro di Yov è una Machloket tra Chachamim, una disputa tra saggi. Un processo in cui l’imputato è D-o. Yov proclama la sua innocenza, reggendo il documento di denuncia contro l’Onnipotente. Yov vuole vedere il volto di D-o, l’intervento di D-o nella storia dell’uomo. Yov dice a D-o che il mondo è nel caos, sotto il potere dei perversi. Yov resta in attesa che D-o esponga la sua replica o almeno l’attestato di ricevuta. Yov, impugna la Torah, la Legge del Patto e grida a D-o che la Torah sia giudice tra lui e D-o. D-o accetta la sfida e viene messo alle strette dalle accuse di Yov. D-o è costretto ad accettare il dialogo, dando così un’imprevedibile svolta alla logica della retribuzione degli amici sapienti che riteneva il sofferente in qualche modo peccatore.
Ma a D-o non importa, per così dire, essere messo alle strette? Dice il Talmud: “Colui che è Santo, benedetto sia il suo nome, ama essere sconfitto dai propri figli”. D-o dice: “nitzchuni banai”, tradotto “i miei figli mi hanno vinto”, oppure “i miei figli mi hanno reso eterno”.
Si tratta dunque di una vittoria di Yov?
“Io ti conoscevo per sentito dire, ma ora i miei occhi ti vedono”.
Yov vive nella consapevolezza di un Patto tra D-o e l’uomo, di una responsabilità che investe tanto lui quanto noi. L’uomo è responsabile di D-o.
Yov ha sofferto e si è ribellato contro il suo dolore eppure, sebbene abbia patito, non ha inflitto dolori ad altre persone. Yov simboleggia la sofferenza innocente. Benché non sia un ebreo, simboleggia le implicazioni universali della sofferenza ebraica. Yov non ha mai rinnegato D-o, nemmeno quando protesta contro di Lui. Smette di protestare non appena D-o gli parla in mezzo alla tempesta. C’è un momento giusto per protestare e un momento per astenersene, un tempo per ricordare e un tempo per perdonare, un tempo per la ribellione e un tempo per la penitenza.
Vi sono alcune forme di sofferenza che l’uomo deve accettare per amore e sopportare in silenzio.
Secondo un Midrash quando il Santissimo, sia Egli benedetto, fu interrogato da Moshe riguardo alla triste sorte di Rabbi Akiva: “E’ questa la tua ricompensa per chi studia la Torah?”, “E’ questa la ricompensa per un giusto?”, D-o rispose: “Taci, questa è la Mia volontà, così Mi è salito in mente!” (“Silenzio! In tal modo si è elevato al Pensiero”). Che cosa significa questa risposta? Il silenzio è il pianto più forte del mondo.
Vi sono invece altri tormenti che l’uomo deve rifiutare.
Yov non dice mai di sentirsi colpevole: dice di essere responsabile. Voleva far sentire D-o in colpa? Se sì, ci è riuscito. D-o è costretto ad ammettere che anche Lui è responsabile. Il mistero dei limiti umani è pertanto pari a quello dei poteri illimitati di D-o. Ciò che hanno in comune è la giustificazione, o la sua assenza, nel futuro della Creazione.
Il dramma di Yov, la tragedia di Yov oltre che il suo mistero inquietante, è racchiuso in una frase chiave: “Anche se mi ucciderà, continuerò a riporre la mia fede in Lui”, oppure “continuerò a desiderarlo”. Avere fiducia in D-o non ostante D-o. In altre parole, Yov afferma la propria fede nonostante la sua sofferenza, nonostante il suo smarrimento e la presenza della morte tutt’intorno a lui. Che significa: nonostante i suoi dubbi. Da D-o non c’è rifugio se non in D-o.
Tuttavia possiamo leggere il verso con un approccio diverso, se non opposto. Scriviamo la parola “lo”, non con le lettere lamed e vav, che significa “a lui”, ma lamed e alef, che significa “no”. Leggiamo l’intero verso: “sebbene lui possa uccidermi, io non lo desidererò, non riporrò in Lui la mia fede”.
Dunque la questione se Yov abbia o no perso la fede è condensata in un breve verso. C’è una risposta? Forse entrambe le spiegazioni potrebbero essere vere. Ma non sono in contraddizione reciproca? Il giudaismo ci insegna che non c’è nulla di male nei paradossi. Non è dato all’uomo di risolvere le contraddizioni ma di assumerle vivendole e di trascenderle.
Yov ha imparato che viveva in un mondo freddo e cinico, un mondo privo di veri amici. È in un mondo siffatto che D-o cerca di raggiungere l’uomo nella sua solitudine. La storia di Yov? Una storia per denunciare l’ipocrisia. E allora capiamo che in questa grande storia la solitudine di D-o è pari a quella di Yov.
Yov riteneva che D-o l’avesse confuso con un oyev, un nemico. È vero, le quattro lettere sono interscambiabili. Tuttavia numericamente Yov è diciannove, l’equivalente di achi: mio fratello.
D’altra parte può darsi che non vi sia contraddizione. È possibile che Yov abbia conservato la sua fede e che nel contempo si sia ribellato contro di essa. È possibile che, all’apice della disperazione e del tormento, abbia realizzato qualcosa di nuovo: ci ha mostrato che la fede è necessaria alla ribellione, che la ribellione è possibile all’interno della fede. Esiste un momento in cui le due cose sono intrecciate in modo da rafforzarsi a vicenda, anziché negarsi l’un l’altra.
Vige un Patto tra D-o e l’uomo, entrambe le parti sono tenute a rispettarlo.
Ma dove è finita la reverenza, la sottomissione? Sotto la reverenza e la sottomissione, tuttavia, c’è anche spazio per la contestazione e il dissenso. La fede è necessaria alla ribellione, la ribellione è possibile all’interno della fede.
Yov è uno dei pochi uomini veramente timorati di D-o. Per Yov è più potente come testimonianza dimostrare il proprio turbamento per i disegni di D-o, che accettare il male in silenzio come fatto inevitabile. Si collabora maggiormente alla gloria di D-o con un grido di angoscia, che con la supina accettazione o l’adulazione del dolore.
La volontà di D-o, ovviamente, è che l’uomo non si arrenda nel suo conflitto con il Cielo, ma gli stia a fronte e vi getti il tumulto. Non si deve mai essere servili, neppure nei confronti di D-o. Anche nella disfatta, ciò che conta è perseverare nel coraggio. Yov ha grande stima dei contestatori che rifiutano di lasciarsi manovrare da altri. Considera l’adulazione cieca un’offesa a D-o. Egli ammira i ribelli giusti della Torah. Yov non deve arrendersi mai, neppure a D-o.
Yov è consapevole di non poter comprendere cosa passa nella mente di D-o. Sa di non poter conoscere le vie di D-o. Tuttavia Yov vuole sentirselo dire direttamente da D-o, vuole parlare con D-o, costringerlo a mostrargli il suo volto.
Perché D-o gli resta lontano e non gli parla nella sua sofferenza? Ma dove è finita la Provvidenza Divina, visto che, come dimostrano i fatti, il giusto soffre e il malvagio gode?
Yov viene esaudito dalla manifestazione divina, non solo D-o gli parla, ma gli parla quasi in confidenza, addirittura dei problemi della gestione dell’universo, facendosi conoscere direttamente.
La risposta divina non solo non nega la Provvidenza, ma la estende dall’uomo a tutto l’universo. Nel suo egocentrismo l’uomo sente se stesso al centro del mondo e della Provvidenza. Non è così. Essa si estende a tutto il creato, cui l’uomo non penserebbe neppure. Bisogna dunque rivedere i valori antropocentrici con i quali l’uomo si permette di giudicare la Provvidenza. Dunque non tanto rinunciare a capire le vie di D-o, ma piuttosto fare uno sforzo per capire in un altro modo. D-o reagisce in modi differenti nei confronti del comportamento dell’uomo. D-o si nasconde ma non è mai indifferente. Yov ha “visto D-o con i suoi occhi”. Rashi commenta che Yov avrebbe visto la Shechinah, cioè la presenza immanente di D-o, avrebbe visto la presenza di D-o nelle sue opere e nella storia. Maimonide commenta che il verbo vedere nella sua radice ebraica (Resh, Alef, Hei) significa anche “concepire con la ragione”, egli precisa che il verbo vedere acquisisce questo significato ogni volta che l’azione di vedere è riferita alla visione di D-o.
Aqedat Ytzchak – La legatura di Isacco
La vicenda della legatura di Isacco ha suscitato nei pensatori di tutti i tempi innumerevoli questioni filosofiche. Ne accenneremo solo alcune partendo da un punto di vista ebraico. E’ necessario precisare che nella letteratura rabbinica ci sono diverse domande e diverse risposte, molte opinioni e discussioni. Per questo motivo quanto segue non pretende di essere nulla di più di un semplice spunto di riflessione.
Come può un padre uccidere il proprio figlio, in particolare un figlio promesso da D-o? Solamente perché D-o gli ha ordinato di farlo? Come può D-o, il D-o dell’amore e della compassione, della clemenza, della benevolenza e della bontà, come può questo D-o aver dato un ordine così crudele e disumano proprio a colui che Lo aveva svelato, il primo dei credenti, il primo Ebreo? Avraham (Abramo) era forse lacerato tra la lealtà a D-o e l’amore per il figlio? Cosa si aspettava D-o da Avraham? Come ha reagito Avraham e cosa voleva dimostrare? Nel complesso la Aqedah è una prova per chi e perché?
Il bene e il male vengono entrambi da D-o e tutto è a fin di bene. Credere in D-o non ostante D-o. Ma è sufficiente?
Per Kierkegaard la risposta é più semplice. Avraham ha posto tutta la sua fede in D-o, e questo è sufficiente. Colui che crede in D-o, per D-o può e deve fare tutto, qualsiasi cosa. Dopo aver ricevuto l’ordine di D-o, per Avraham fu più difficile risparmiare Ytzchak che trucidarlo. D-o chiede di rinunciare totalmente a noi stessi, una rinuncia totale della vita. Ad esempio di ciò viene citato spesso il verso di Luca: “Se qualcuno viene a me senza odiare il proprio padre, la madre, la moglie e i figli, i fratelli e le sorelle, e persino la propria vita, non può essere mio discepolo”.
Non si coglie qui una contraddizione con il comandamento di “ama il prossimo tuo come te stesso”? Forse che nel pensiero cristiano c’è uno squilibrio fra il comandamento di amare D-o e quello di amare il prossimo?
Agli occhi della Torah e di qualsiasi ebreo un tale detto contraddice la tradizione ebraica. Come è detto: “onora tuo padre e tua madre”. I Maestri nel Talmud interpretano: “il Signore ha collocato l’obbligo di onorare padre e madre prima di quello di onorare Lui stesso”. “È grande il dovere di onorare il padre e la madre, se il Santissimo, sia lodato il Suo Nome, diede all’onore dovuto ai genitori uguale importanza dell’onore dovuto a Lui”.
“Ascolta Israele, il Signore nostro D-o, il Signore è Uno”.
“amerai il Signore tuo D-o con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le tue facoltà”.
“amerai il tuo prossimo come te stesso”.
Insegnamento di Hillel: “Non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te: ecco la Legge. Il resto non è che commento. Va e Studia”. Questa è Legge: “amerai il tuo prossimo come te stesso, tutto quello che vorresti che il tuo prossimo faccia a te fallo tu al tuo prossimo”.
I nostri maestri hanno un punto di vista differente da Kierkegaard, mossi dal desiderio di redimere Avraham e il suo atteggiamento verso Ytzchak. Non è facile. Ritengono che la Aqedah sia una prova duplice. D-o mise alla prova Avraham, e Avraham mise alla prova D-o. Nel primo caso, la prova è visibile, tangibile; nel secondo, si consuma nel cuore e nella mente di Avraham e D-o ascolta il cuore e la mente.
Avraham, data la sua enorme fede nella bontà e nella giustizia divina, sa che il proprio figlio non morirà sull’altare. Questo è il motivo per cui trova la forza interiore di sottomettersi all’ordine datogli da D-o ed eseguirlo con sicurezza. In ebraico è possibile leggere il verso in modi diversi: “Avraham rispose: «D-o stesso provvederà per se l’agnello per l’Olah, figlio mio!». E proseguirono tutti e due insieme”; “E Avraham rispose: «D-o! Vedi ancora come agnello per l’Olah mio figlio?»”; “E’ accettabile ai tuoi occhi che mio figlio sia l’agnello per l’Olah?”. Come per dichiarare: “Signore dell’universo, vuoi la vita di mio figlio, la vuoi attraverso le mie mani? Hinneni, eccomi, ed ecco mio figlio! Adesso vediamo se veramente sarà necessario che io diventi lo strumento della sua morte!”.
L’intuizione di Avraham è corretta: D-o revocherà l’ordine. Avraham riceve questa notizia da un angelo di D-o. E perché non da D-o stesso? Per quale motivo solo D-o può ordinare una punizione mortale, mentre l’uomo si deve limitare a salvare una vita umana? Forse c’è un’altra ragione: D-o era imbarazzato. Avraham ha costretto D-o a fermarlo. Avraham ha dimostrato di aver compreso bene il significato degli insegnamenti della Torah: D-o non potrà mai dare un ordine contrario alla sua stessa etica.
La storia è dunque finita? Non nel Midrash, dove il lettore è testimone di un ribaltamento sorprendente, di un vero e proprio colpo di scena: al posto di gridare la propria gioia, se non la propria gratitudine, Avraham, il primo Ebreo, incomincia a discutere.
Quando Avraham sentì la voce celeste ordinargli di risparmiare il figlio Ytzchak, affermò: “Giuro che non mi allontanerò dall’altare prima di aver detto quel che ho da dire!”. “Parla” disse D-o. “Non mi avevi promesso che i miei discendenti sarebbero stati tanto numerosi quante sono le stelle in cielo?”. “Sì, te lo avevo promesso”. “E di chi saranno i discendenti?”. “Saranno i discendenti di Ytzchak”. “Signore dell’universo” disse Avraham, “avrei potuto dirti che il tuo ordine era in contraddizione con la tua promessa. Ho trattenuto il mio dolore e tenuto a freno la lingua. In cambio, voglio che mi prometti che ogni volta che i figli dei miei figli peccheranno, anche tu non dirai nulla e li perdonerai!” “Così sia” disse D-o. “Che continuino a raccontare questa storia e saranno perdonati”.
Questa è la ragione per cui si legge la storia della Aqedah nei giorni penitenziali. Noi ricordiamo a D-o quella promessa. Ma a D-o non importò, per così dire, essere messo alle strette? Dice il Talmud: “Colui che è Santo, benedetto sia il suo nome, ama essere sconfitto dai propri figli”. Dio dice: “nitzchuni banai”, tradotto “i miei figli mi hanno vinto”, oppure “i miei figli mi hanno reso eterno”.
La Akedah è dunque una vittoria di Avraham.
Questa vicenda ha suscitato nei pensatori di tutti i tempi innumerevoli questioni filosofiche. Kierkegaard ha dato la sua risposta.
I nostri Maestri rispondono:
Esiste un dovere assoluto verso D-o?
Senza dubbio esiste un dovere assoluto verso D-o ma al suo interno c’è spazio per la ribellione, per la discussione con D-o. D-o ha scelto l’uomo come suo interlocutore e collaboratore. L’uomo è socio di D-o. La fede ebraica è una continua lotta con D-o.
Si dà una sospensione teologica dell’etica?
Senza dubbio la religione è metaetica, ma questo non implica che D-o pretenda dall’uomo qualcosa di immorale dal momento che Egli è l’origine dell’etica. D-o non chiede all’uomo di sacrificargli suo figlio.
La vita è un luogo dove D-o si cela. E noi non siamo mai distaccati da lui, che ha bisogno di noi. I popoli vagano e delirano, ma tutto questo scalfisce appena la profonda, inavvertita e incompresa quiete.
Il rapporto tra D-o e Israele è un rapporto di amore. Il nostro amore per D-o non è che un riflesso del Suo amore per noi. Tuttavia tra coniugi amanti si può anche litigare. La sottomissione a D-o non esclude necessariamente la possibilità di critica a D-o, si pensi a nostro padre Avraham.
Avraham è un ebreo. Avraham è come Israel, suo nipote (Giacobbe), “ha combattuto con D-o”. Avraham fa un processo a D-o nei suoi silenzi. Avraham è uno che crede nella giustizia di D-o e nella verità di D-o nonostante il mondo sia un “mondo della menzogna”, un “mondo di caos”. Avraham crede in D-o nonostante D-o. Questo non esclude però che si possa discutere con D-o.

Paolo Sciunnach, insegnante

(15 gennaio 2018)