Repetita juvant
Vorrei tornare sulla dialettica Hanna Arendt- Bettina Stangneth (vedi il mio commento, in questa stessa sede, “Se la banalità diventa slogan”, pubblicato in Idee il 27/06/2017) perché considero necessario chiarire quale sia la posta in gioco.
Come già asserito, nel citato mio intervento, Hanna Arendt (La banalità del male- Eichmann a Gerusalemme, Feltrinelli, 2013, prima edizione 1963) sostenne, nell’ordine: a) che Adolf Eichmann era fondamentalmente poco intelligente, b) che il male non è radicale ma banale, c) che l’intervento delle istituzioni ebraiche peggiorò anziché migliorare le possibilità di salvezza dallo sterminio nazista. Quanto all’Italia, Robert Katz in “Black Shabbath” sostenne alcune tesi non molto dissimili da quelle della Arendt. Bettina Stangneth, (La verità del male- Eichmann prima di Gerusalemme – Luiss- Giugno 2017) invece, sostiene che Eichmann durante il processo a Gerusalemme tentò di dare di sé un’immagine “banale” quale scaltra strategia processuale.
Ora, che i malvagi siano anche oligofrenici o giù di lì, è una vecchia tesi della stessa Arendt, laddove, per esempio, asseriva che “Il dominio totale non consente libertà d’iniziativa in nessun settore della vita, non può ammettere una attività che non sia interamente prevedibile. Ecco perché i regimi totalitari sostituiscono invariabilmente le persone di talento, a prescindere dalle loro simpatie, con eccentrici e imbecilli la cui mancanza d’intelligenza e di creatività offre dopotutto la migliore garanzia di sicurezza” (Hanna Arendt, Le origini del totalitarismo, Edizioni di Comunità, 1999, p. 470, la cui prima edizione è del 1951). In ogni caso, l’amico della Arendt, Martin Heidegger, un nazista che sostenne che gli ebrei si erano auto annientati, essendo stato fra i maggiori filosofi della storia, non rientrava di certo fra il novero degli sciocchi.
La documentazione prodotta dalla Stangneth è davvero notevole e utile, il che non toglie che la critica alla Arendt fosse iniziata molto prima. Sostenere che il male sia banale è una tesi filosofica e, in quanto tale, indimostrabile. A noi dovrebbe invece interessare la capacità di dissimulazione degli obiettivi finali di genocidio, che purtroppo riesce a funzionare egregiamente quale che sia il quoziente intellettuale di chi lo pone in essere e se il risultato finale è che gli sciocchi sterminano le persone intelligenti, appare chiaro che la valutazione di intelligenza/stupidità diventa o consolatoria oppure strumentale. Nel caso della Arendt, se si unisce la sua valutazione sul ruolo quasi perverso svolto dalle istituzioni ebraiche con quella su Eichmann, ne verrebbe fuori il risultato paradossale per cui la colpa è dei “capi” ebrei e dello Stato di Israele, che avrebbero trascinato in tribunale un burocrate di poco conto. Filosofia per filosofia, potremmo pure sostenere, più che legittimamente, che dare la colpa alla vittima è un esito, a sua volta, sia sciocco che biasimevole. Lo si fa ancora, e se non ricorriamo a nomi e cognomi è soltanto per non focalizzarci, a nostra volta, su singoli individui bensì su un malvezzo intellettuale che andrebbe chiarito perché possa essere respinto. Fra gli oneri che fanno parte del retaggio di ciascun essere umano vi è quello della responsabilità per le proprie azioni. In tribunale non è prevista l’assoluzione perché non si è molto intelligenti o perché si è banali e non è previsto che si possano scaricare sulle istituzioni le proprie colpe.
Emanuele Calò, giurista