Lapsus
Sono abituato, per natura, ad accettare le scuse o le rettifiche presentate da qualcuno, a proposito di qualche “voce dal sen fuggita”, senza stare troppo a chiedermi se e in che misura le parole di ritrattazione o di chiarimento siano sentite e sincere, o non rappresentino invece un semplice tentativo di rimediare al danno arrecato. Prendo quindi atto che Attilio Fontana, candidato alla Presidenza della Regione Lombardia, ha detto che le sue affermazioni riguardo alla nostra purissima “razza” bianca (“dobbiamo fare delle scelte, decidere se la nostra etnia, razza bianca, società deve continuare ad esistere o deve essere cancellata”) sono state un difetto di comunicazione: “E’ stato un lapsus, un errore espressivo, un ‘qui pro quo’: intendevo dire che dobbiamo riorganizzare un’accoglienza diversa che rispetti la nostra storia, la nostra società”.
Va bene, accogliamo la (parziale) ritrattazione (un po’ mi dispiace, mi stavo già un po’ compiacendo guardando, allo specchio, la mia faccia biancastra, ancorché un po’ rugosa). Una rettifica che invece, dato il personaggio, certamente non verrà da un altro candidato Governatore (stavolta della Regione Lazio), il sindaco di Amatrice, Sergio Pirozzi, che ha affermato che “Il Duce ha fatto grandi cose nelle politiche sociali”, e “le opere pubbliche realizzate durante il fascismo sono state una cosa positiva per il Paese”. Giusto, prendiamo nota. Sono parole che certamente gli faranno guadagnare voti, mentre, forse, la rettifica di Fontana gliene farà perdere.
Oramai, niente più ci stupisce, niente riesce a indignarci. Trovare una frase sensata, con un contenuto decente e, magari – chiedo troppo? -, con i congiuntivi a posto, è un’impresa sempre più difficile. Lascio ai sondaggisti e agli studiosi delle strategie di comunicazione l’arduo compito di giudicare se sia meglio non esagerare e, quando è necessario, dire “oops, scusate, mi è scappato”, oppure mostrarsi “duri e puri”, e non chiedere mai scusa a nessuno, nemmeno se si sputa in faccia al nostro dirimpettaio a tavola, solo perché, per esempio, ha osato dire che i neri sono esseri umani come noi. La “pancia” del Paese, si sente spesso dire, approva la spontaneità (Trump, ho sentito affermare da un noto intrattenitore radiofonico, pensa le identiche cose di Obama, ma ha solo il coraggio di dirle), e la “pancia” è una cosa che oggi va per la maggiore, a differenza di altri organi, che (forse perché “di sinistra”?) paiono alquanto mal messi. Il cervello è in piena fase di rottamazione, e il cuore è completamente “desaparecido”, da decenni: se lo nominate a un ragazzino, nel suggerirgli di non angariare i più deboli, è facile che vi prendiate, per risposta, una bella coltellata, così, per gioco (ed è inutile che sporgiate denuncia, sicuramente sarà un tredicenne, non imputabile).
Già immagino le critiche di qualcuno pronto a dirmi: allora preferisci i comunisti, oppure i filo-islamici, quelli delle bombe, il burqa e le spose bambine?! Per carità, non oserei mai consigliare a nessuno per chi votare, se non altro perché, ogni volta che faccio il tifo per qualcuno, perdo sempre clamorosamente. Guardo alla prossima tornata elettorale del 4 marzo con un sentimento di totale disillusione, sfiducia, malinconia. Non so chi vincerà, ma so per certo che io perderò. L’Italia che uscirà dalle urne non potrà che essere l’Italia che già c’è: un’Italia infinitamente più volgare, egoista, razzista, becera, ignorante di quella di soli dieci anni fa (che già non era un grande cosa), e lontana anni luce da quella che era stata vagheggiata dai nostri Padri costituenti, settant’anni fa.
Non ho scritto “l’Italia perderà”, perché ritengo presuntuoso asserire che l’Italia debba essere quella che io vorrei che fosse (spero di non avere sbagliato i congiuntivi e i condizionali: in effetti, è una frase un po’ ingarbugliata). Quando ero ragazzo, mi insegnarono che la patria era il frutto dei sacrifici dei nostri antenati, quindi ero ingenuamente abituato a pensare a lei come a qualcosa di antico, austero, solenne, degno di rispetto e reverenza. Ma sono cose vecchie, adatte a chi è vecchio come me. L’Italia di oggi è ben diversa: giovane, baldanzosa, gagliarda, muscolosa, “tosta”, protesa verso un futuro radioso. E, soprattutto, è di memoria corta: del passato, come si dice, “se ne frega”.
Francesco Lucrezi, storico