INFORMAZIONE Gidibì il Terribile, il profeta del giornale glocal

Quarant’anni fa, la notte fra il 14 e il 15 gennaio, moriva Giulio De Benedetti. Il più grande direttore di giornali nell’Italia del secondo Novecento era piccolo. Forse per questo era chiamato con nomignoli: Gidibì per le sigle gd.b. con le quali suggellava in prima pagina commenti essenziali, sferzanti; Ciuffettino per il riporto ribelle che gli cadeva sugli occhi. Quel ciuffo, il perenne maglione girocollo, le passeggiate ogni giorno nei boschi di Rosta, l’aspra sincerità, le sgridate impietose accesero il mito del Terribile, tuttavia pronto all’elogio e capace di affetti tenaci per i suoi giornalisti. Ne fiorirono aneddoti in tale quantità da superare quelli su Luigi Albertini e Mario Missiroli, altri direttori leggendari. Ma più degli sdegni, delle arguzie e delle abitudini, il suo carisma e il suo potere erano dovuti all’idea di giornale, ai risultati raggiunti con La Stampa, della quale nel 1948 si era messo al timone: vasta diffusione, prestigio nazionale ed europeo.

Firme prestigiose

La formula è ambiziosa: un quotidiano «di qualità» e insieme «popolare». Non appiccica due modelli opposti diffusi all’estero: l’«alto» per lettori colti o meno incolti, il «basso» demagogico e volgare per più facili appetiti. Ma fa un giornale ricco d’informazione italiana e internazionale, con prestigiosi commentatori di politica, economia, costume e firme della cultura, capace di comunicare con le masse, di appagarne gli interessi, di trarne spunti, d’interpretarne sogni e bisogni. De Benedetti ci riesce perfezionando la rotta di Alfredo Frassati il fondatore: racconta il Paese disseminando corrispondenti in ogni capoluogo di provincia; fa sentire a Roma il peso industriale, economico, culturale, morale di Torino e del Piemonte; apre all’Europa con un gruppo di otto giornali: New Chronicle, Le Figaro, Frankfurter Neue Presse e altri di Bruxelles, Amsterdam, Lussemburgo. Sfida la Gazzetta del Popolo, forte concorrente locale, con una cronaca cittadina tesa come un arco: cronisti-segugi cacciatori di storie, di notizie, dei particolari più seducenti e rivelatori, e cronisti-estensori, cioè scrittori, ostinati nel verificare quegli elementi e allenati a raccontarli. Accanto ai delitti, ai processi, alla politica comunale e sindacale, i lettori sono certi di poter confrontare la propria opinione sul film, sull’opera, sul concerto, sulla commedia cui hanno assistito la sera precedente con le recensioni di tre affermati critici di musica, cinema e teatro. Poi con quella del critico televisivo, che La Stampa istituisce per prima. Le recensioni decretano fiaschi e successi, portano in una platea chi non vi è mai entrato, spingono all’acquisto di un televisore non soltanto per Lascia o raddoppia?, ma anche per Goldoni, Pirandello, Shakespeare, per le commedie napoletane di Eduardo De Filippo e per quelle genovesi di Gilberto Govi. Gidibì dà spazio al calcio e al ciclismo che con Coppi, Bartali ed eredi gli contende il primato. Condottiero dei cronisti sportivi è il mitico Vittorio Pozzo, commissario tecnico della Nazionale che vinse due titoli mondiali nel 1934 e 1938, e l’oro olimpico nel 1936. Tuttavia per completare la formula di giornale popolare La Stampa deve dar voce a chi non ne ha. Così il 17 dicembre 1955 nasce «Specchio dei tempi», il suo capolavoro: non una semplice rubrica di corrispondenza con i lettori, ma il primo «social network», una rete sociale alla quale segnalare problemi pubblici e personali, denunciare ingiustizie, chiedere e offrire aiuto: al povero, alla famiglia, a intere popolazioni. A farne uno strumento formidabile è il peso politico e morale della testata di linea socialdemocratica – memore di Giustizia e Libertà e del Partito d’Azione – attenta agli operai, ai poveri, alle vaste migrazioni dal Sud. L’importanza dei dettagli Il direttore cura ogni particolare: la carta migliore, la stampa più nitida, ogni titolo sorvegliato, ogni aggettivo calcolato. Non va mai nella capitale, rari politici sono ammessi in via Roma nel suo studio in penombra per i grandi tendaggi di velluto rosso. Li riceve in piedi. Lo fa pure con Guido Piovene, Enrico Emanuelli, Arrigo Benedetti, Vittorio Gorresio, Enzo Biagi, Francesco Rosso, Gigi Ghirotti, i suoi «moschettieri» e amici, che tuttavia rampogna se non hanno dato il massimo. Biagi dagli Stati Uniti si licenzia quando Gidibì gli telefona bocciando l’articolo sul presidente Kennedy assassinato e pubblicandolo in posizione secondaria, ma l’anno dopo gli chiede di tornare. «Io oggi lo devo uccidere» proclama Franco Antonicelli, ma non trova neanche parole davanti al direttore che gli punta una sciabola avuta in dono. A ogni inviato capita di dover riscrivere un pezzo o, tornato da Tokyo o da Algeri, d’essere spedito al festival di Sanremo o tra i produttori del formaggio Castelmagno.

I primi scoop

Prima che autoritario, De Benedetti è autorevole per la carriera alle spalle: dal 1911 stenografo alla Stampa di Frassati, ne diventa corrispondente dall’estero. Nel 1914 a Basilea nota movimenti di truppe ed è il primo giornalista italiano a dare notizia dell’inizio della Grande guerra. Passato alla Gazzetta del Popolo, corrispondente dalla Germania, va a Mosca nel 1921 e incontra Lenin malato e Aleksandra Kollontaj. Nel marzo 1923 a Berlino vede Hitler e lo spreme in una lunga intervista. Della Gazzetta diventa direttore. Vengono però gli anni bui. Dal ’30 al ’40, antifascista ed ebreo, De Benedetti campa come «collaboratore anonimo» alla Stampa fino a quando non è costretto a riparare in Svizzera. Vicedirettore di Filippo Burzio nel ’45, tre anni dopo suo successore, persegue la sua idea di un’Italia libera, civile, laica, allarmata dai segnali neofascisti, l’idea frassatiana di «un giornalismo onestissimo, indipendente da tutti» e la propria idea di giornalismo come «servizio pubblico» da compiere «senza facilonerie, senza sciatterie». Vi aggiunge più attenzione alla giustizia, alla scuola, allo sviluppo economico, alle mutazioni della società, e curiosità, fantasia, prontezza di riflessi. In politica, per primo apre al centro-sinistra. Nel 1968, traghettato il giornale da via Roma al nuovo palazzo di via Marenco, dopo vent’anni di regno, Gianni Agnelli gli chiede di lasciare. Lui indica Gorresio. L’Avvocato sceglie l’inviato quarantaduenne Alberto Ronchey. Il fondamento morale De Benedetti ne soffre: più del potere gli manca il mestiere. Continua a leggere ogni riga del giornale, a telefonare apprezzamenti o sgridate alla «vecchia guardia». Si appassiona a due nascite quasi contemporanee: quella a Torino di Tuttolibri e quella a Roma della Repubblica, il quotidiano di suo genero Eugenio Scalfari. Ritorna ogni giorno nei boschi di Resta. Non chiede più «consiglio al re degli Elfi», come scherzava da direttore, ma discute di informazione con chi l’accompagna. Ripete: «La verità è l’unica cosa che conti». Oppure: «Non si può fare nulla in questo mondo senza un fondamento morale». Alla sua morte, a 87 anni, qualcuno l’accusò di non avere subito «capito il Sessantotto» e d’essere stato il vessillo del giornalismo «di un’altra epoca». Quarant’anni dopo, Giulio De Benedetti appare non solo un protagonista della storia del giornalismo italiano, ma anche il profeta necessario a una professione da rifondare.

Alberto Sinigaglia, La Stampa, 12 gennaio 2018