MEMORIA Il rabbino ritrovato

Rav Eliahu Eliezer Grossman, Torino, 1931Il 20-21 ottobre scorso (Shabbat P. Noach, Rosh Chodesh Cheshwan) il Bet ha-Kenesset di Torino è stato visitato da una delegazione proveniente da Israele tutta al femminile: una nonna, due figlie e cinque nipoti della stessa famiglia. Lasciati a casa vari mariti a bada della prole, le sei donne più giovani hanno accompagnato la nonna alla riscoperta della sua città natale. Rivka Grossman è nata infatti a Torino insieme alla sorella gemella Sara il 1° maggio 1936: lo stesso giorno della conquista dell’Abissinia, tanto che un vicino aveva proposto ai genitori di chiamare le due nuove nate Addis e Abeba! Come tutti gli Ebrei stranieri giunti in Italia dopo il 1919 anche la famiglia di Rivka dovette abbandonare il nostro paese nel 1939 per effetto delle leggi razziali. I Grossman raggiunsero Eretz Israel a bordo della nave Galilea prima che colasse a picco al viaggio successivo. Rivka, che aveva allora tre anni appena, non conserva alcun ricordo personale né di Torino, dove ora è ritornata per la prima volta, né del trasferimento in Israele. Chi era suo padre? Rivka è figlia del Rav Eliahu Eliezer Grossman. Nato in Polonia nel 1907, dopo aver conseguito il titolo rabbinico giunse in Italia (1928), a quanto pare a seguito di una proposta matrimoniale. Il 17 maggio 1931 Rav Grossman sposò a Milano Ides (Yehudit) Lichtenstein, figlia dello Shochet locale, titolare di un ristorante kasher nel capoluogo lombardo. Poco dopo le nozze si trasferì a Torino dove svolse, nella Comunità guidata da Rav Giacomo Bolaffio prima e Rav Dario Disegni poi, le funzioni di Chazan e di Shochet. Aprì a sua volta a Torino, nel cortile di Via Principe Tommaso, 20 a due isolati dal Bet ha-Kenesset, un ristorante kasher. Il locale era aperto –testimonia un fratello- a chiunque fosse interessato a un Devar Torah. Negli anni della sua permanenza a Torino il Rav si dedicò con energia a contenere l’assimilazione nell’ambiente ebraico della città. Se si eccettua qualche breve nota d’archivio, della sua presenza gli Ebrei torinesi non paiono aver conservato memoria, forse proprio per il fatto che il periodo si sarebbe chiuso con la tragedia della Shoah. Una volta stabilitosi in Israele, peraltro, Rav Grossman non dimenticò l’Italia. In famiglia si racconta che spesso dal quartiere di Bet ha-Kerem dove abitava a Yerushalaim, di Shabbat faceva oltre un’ora di strada a piedi per raggiungere il Bet ha-Kenesset italiano: qui amava ripetere le melodie che aveva appreso a Torino. Profondamente influenzato e ispirato dal movimento sionistareligioso Mizrachi strinse amicizia, fra gli altri, con Rav Menachem Emanuele Artom. Ho accompagnato Rivka e le sue discendenti alla ricerca delle radici torinesi di lei, aiutandole a ritrovare i luoghi cari alla loro memoria. In questo siamo stati aiutati dal fratello maggiore di Rivka, che invece serba di Torino ricordi più netti. Pur non potendo unirsi per motivi d’età al viaggio in Italia, ci ha seguito in costante collegamento telefonico, permettendoci di condividere con lui impressioni e sensazioni straordinarie a distanza di ottant’anni. Molto toccante è stato il momento in cui, durante la Tefillah di Shabbat mattina nel Bet ha-Kenesset, Rivka ha chiesto di poter recitare pubblicamente la Berakhah she-‘assah li nes ba-makom ha-zeh, con cui avrebbe ringraziato D. “per avermi fatto un miracolo in questo luogo”. Le ho domandato di quale miracolo si trattasse. “Mio padre –mi ha spiegato- si trovava molto bene a Torino e avrebbe voluto rimanere. Ha lasciato l’Italia solo perché costretto. Le leggi razziali di Benito Mussolini, paradossalmente, ci hanno salvati! Se fossimo rimasti in Italia non possiamo immaginare a cosa saremmo andati incontro. E tanto peggio sarebbe stato se la mia famiglia avesse continuato a vivere nella nostra terra d’origine, la Polonia. Insomma – ha concluso- è tutto merito di questo luogo!”. Quello degli espulsi è un tema legato alla Shoah che meriterebbe forse un maggiore approfondimento. Il mio particolare coinvolgimento emotivo in questa vicenda è anche dovuto a ragioni autobiografiche cui accenno soltanto. Girato l’angolo da casa Grossman abitava negli stessi anni a Torino un altro ebreo polacco, Norbert Rapoport, fratello di mia nonna. Anche i Rapoport hanno dovuto lasciare l’Italia nel 1939 e si sono diretti in Ecuador. Nel caso dei Grossman, la ‘aliyah in Israele, per quanto forzata, ha certamente permesso loro di rifarsi una vita e di creare un nucleo famigliare forte e numeroso. Osservando la loro vicenda da una prospettiva completamente diversa, tuttavia, mi domando quale contributo una figura del calibro di Rav Grossman e altri come lui avrebbero potuto dare negli anni all’Ebraismo italiano se fossero rimasti e sopravvissuti. Mi rendo conto che la storia non si confeziona mediante i “se”. Mi rendo parimenti conto che la Mitzwah di “salire” in Israele, per scelta o costrizione che sia, ha un valore inestimabile. Nello stesso tempo mi domando quante personalità carismatiche abbiamo perso, dotate della capacità di coniugare un ebraismo autentico con la realtà del nostro vivere quotidiano? E’ vero. Talvolta capita che “dal duro emerga il dolce” (Shofetim 14,14). Ma ciò non può costituire un’attenuante. La Shoah va vista come Male nel suo complesso –sarei tentato di rispondere a Rivka Grossman, pur comprendendo appieno la sua condizione personale e i suoi sentimenti-: in questo senso tutti coloro che vi hanno collaborato devono essere condannati senza “se” e senza “ma”.

Rav Alberto Moshe Somekh, Pagine Ebraiche, gennaio 2018