Lasciapassare

Screen Shot 2018-02-01 at 13.18.46Il Muzej ratnog djetinjstva, museo dell’infanzia in guerra aperto a Sarajevo nel gennaio del 2017 dopo una prima esposizione temporanea del marzo precedente, ha tra le sue peculiarità di particolare efficacia una sezione dedicata agli oggetti dei bambini che hanno vissuto la guerra e l’assedio di Sarajevo, raccontati dagli ex bambini stessi che spiegano il significato particolare di quegli oggetti per loro.
Tra essi, un disegno di un documento di identità di una bambina che pensava, grazie ad esso, di poter avere un lasciapassare per lasciare la città assediata. Di per sé è un manufatto infantile, una testimonianza di un’esperienza di guerra. Lo possiamo però leggere nell’ottica dell’auto percezione in guerra, e della consapevolezza infantile dell’importanza di possedere un documento di identità per poter fuggire da quanto stava accadendo.
Del resto, già i quasi diecimila bambini ebrei che arrivarono nel Regno Unito con i kindertransport, alla vigilia del Secondo conflitto mondiale, in fuga dalla Germania e dall’Europa dell’est assediata dal regime nazista, portavano una valigia (di più non era loro concesso) ed un cartellino al collo con scritto il loro nome, e tale immagine è presente in tutti noi attraverso il simbolo dell’orsetto inglese con il montgomery blu ed il cappello rosso, Paddington, creato dal recentemente scomparso Michael Bond (ricordato anche da Pagine Ebraiche) il quale si era ispirato proprio ai bambini che vedeva arrivare alla stazione londinese di Liverpool Street.
Ci dobbiamo chiedere quale sia l’evento importante conservato nel Museo bosniaco, oltre al dato oggettivo dell’importanza di un documento valido o abilmente falsificato in modo da apparire tale in guerra: che una bambina abbia lasciato una testimonianza della guerra a Sarajevo? Che passasse il tempo, anche, disegnando? O piuttosto che in quel disegno sono racchiusi la paura, la volontà di costruirsi un futuro attivo cercando di scappare, l’ingenuità preziosa di una bambina convinta che, in assenza di un documento valido, possa fabbricarsene uno da sola?
É noto, e sembra ovvio, che dal 1943, quando la persecuzione degli ebrei in Italia divenne, da giuridica, fisica ed iniziarono le deportazioni, molte persone cercarono di procurare per sé e per i propri figli documenti falsi che occultassero la loro ebraicità, al fine di sottrarsi all’arresto nel caso di eventuali controlli. Questo è accaduto, d’altronde, non solo in Italia: vi fu chi cercò di nascondere i figli in istituti religiosi cristiani in Francia, come i genitori di uno degli attuali storici più importanti sulla Shoah, Saul Friedlander (nato nel 1932); altri per sfuggire a retate e deportazioni come il polacco Yehuda Nir (nato nel 1930); altri ancora per mescolarsi alla popolazione non ebrea dei Paesi alleati, occupati o annessi al Terzo Reich, come in Italia.
Qui, una volta iniziate le deportazioni dall’autunno del 1943, molti ebrei si procurarono documenti falsi con nomi inventati o nomi di persone provenienti da territori già liberati dagli Alleati, le cui anagrafi erano inaccessibili ai nazifascisti per eventuali verifiche (ragione per cui molte carte di identità false risultano intestate a persone nate nel meridione).
La fiducia nelle carte false fu spesso eccessiva, e numerosi sono i casi che mostrano una certa ingenuità che avrebbe tradito i braccati nel caso di qualsiasi controllo accurato: ricorda ad esempio Sandro Lopez Nunes (nato nel 1937) ricorda che “io mi chiamavo sempre Lopez, Sandro Lopez, ma non nato a Milano, nato a Livorno […]. Pensandoci adesso, di una ingenuità totale,
perché i Lopez di Livorno sono tutti ebrei” (intervista orale). Anche Graziella Falco (nata nel 1929) divenne Graziella Fabbri, di Napoli, “una storia che non reggeva, anche per la mia pronuncia decisamente poco meridionale” (intervista con l’autrice).
L’assunzione di un nuovo nome non significò solo essere sempre all’erta per ricordare la nuova identità, ma nei bambini più piccoli creò dubbi e sgomento, essendo un sovvertimento della conoscenza di sé e della logica. Il nuovo nome era spesso infatti un elemento di disturbo psicologico e di incertezza, e questo aspetto mi sembra particolarmente importante quando si studiano i bambini: l’esperienza della falsa identità appare quindi come più difficile e traumatica per un bambino che per un adulto, e sull’infanzia ha avuto un impatto assai più devastante, oltre ad aver comportato maggiori pericoli di tradirsi.
Ricorda in proposito Liliana Treves di aver odiato il nuovo nome, il doverlo memorizzare, il temere di non rimanere la stessa: “però noi rimaniamo gli stessi […] non ci riconoscono dal nome ma dalla faccia” (Con occhi di bambina. 1941-1945, Giuntina 1994, pp. 58-59). Come non perdersi completamente attraverso mutamenti di nome, di vita, di affetti, e soprattutto come cercare, per quanti riuscirono a sopravvivere, di ritrovare se stessi, è un capitolo spesso ancora più doloroso e difficile da indagare.

Sara Valentina Di Palma

(1 febbraio 2018)