Identità e sovranità
Il cambiamento politico e culturale consumatosi in questi ultimi trent’anni in Italia, ma anche in una parte importante del resto d’Europa, è stato segnato dal ritorno di temi e di motivi che sono transitati, dal loro originario costituire patrimonio di piccole nicchie, quindi ai margini della scena politica, ad oggetto di discussione e di considerazione nell’agenda di alcuni governi e di una parte rilevante dell’opinione pubblica generalista. In altre parole: non si è dinanzi al ritorno del fascismo-regime, in sé completamente consumatosi, e neanche davanti alla rivincita del neofascismo “storico”, quello che va dal 1945 in poi, bensì all’adozione di una serie di parole chiave (tali perché capaci di scaldare gli animi e di mobilitare parte della collettività), che derivano dal lessico neofascista, non solo per la loro origine ma anche e soprattutto per l’accezione che assumono nell’odierna discussione pubblica. La qual cosa pone molti problemi. C’è chi ha scritto, riferendosi al linguaggio, che: «gli usi delle parole costituiscono, soprattutto nello spazio pubblico, strumenti fondamentali di lotta politica, perché hanno l’effetto di determinare cosa può essere detto e cosa no in una congiuntura specifica. Rendono cioè lecite espressioni fino ad allora ritenute scandalose e provocano la censura o l’autocensura per espressioni fino ad allora ritenute accettabili. Per questa ragione le trasgressioni linguistiche sono sempre state tra i principali strumenti utilizzati per condurre dei colpi di mano in politica». Già si è avuto modo di richiamare, al riguardo, la traiettoria del fascismo storico, dal sansepolcrista manifesto dei Fasci italiani di combattimento del 1919 fino alla carta di Verona del tardo autunno del 1943: le incursioni nel lessico della sinistra connotano non di certo un’adesione ai suoi moventi; semmai l’obiettivo è esattamente opposto, ovvero quello di carpirne l’uso, manipolandone il significato più profondo. Per poi farlo definitivamente proprio. La guerra ai “nemici” liberali, socialisti, anarchici, comunisti, più in generale a chi non aderisce alla dottrina del «marciare per non marcire», si fa non solo distruggendone i luoghi di aggregazione, eliminandone gli esponenti così come i militanti, tacitandone ogni residua possibilità di espressione e censurando le opinioni ma anche e soprattutto cercando di deprivare gli oppositori di uno dei beni più preziosi, nel passato al pari del presente, ossia la capacità di comunicare dei significati condivisi, sulla base dei quali stabilire piattaforme di lotta politica. In altri termini, come già si è avuto modo di ricordare, i fascismi da sempre si alimentano del furto dei significati delle parole che rimandano alla mobilitazione collettiva, stravolgendone i contenuti a proprio favore. Tutto il linguaggio della destra radicale odierna deriva pertanto da questa precisa operazione: saccheggiare il vocabolario della partecipazione politica, per azzerarla completamente. Ciò che conta, nel pensiero di queste organizzazioni, è infatti non il fare politica bensì il distruggerla. Il fascismo, infatti (ed è questa un’altra sua caratterizzazione), non promuove la politica in quanto tale, per propria natura pluralista, ma la sua più completa delega a pochi gruppi di interesse. Ciò che semmai si adopera nell’offrire concretamente a chi aderisce alle sue organizzazioni, è il gusto dell’azione aggressiva fine a se stessa, con un gradiente che va dall’invettiva denigratoria al menare le mani, fino agli esercizi di violenza tanto gratuiti quanto inauditi. Fatte le debite proporzioni, fenomeni similari si stanno verificando, in questi anni, con quei movimenti, quei partiti, quei gruppi politici che, a vario titolo, in Europa come anche in altre parti del mondo, si rifanno al populismo ma anche ad ideologie variamente definite come «identitarie» e «sovraniste». Non è infrequente che questi incapsulino, in una veste altrimenti più presentabile, alcuni tra i vecchi, ricorrenti e solidi motivi del neofascismo continentale. Il populismo finge che qualsivoglia virtù riposi nella volontà di un non meglio identificato «popolo», a prescindere da qualsiasi concreto riscontro di fatto. Il popolo costituirebbe, per il solo fatto di esistere, il depositario di verità incontrovertibili: basterebbe quindi interrogarlo per avere da subito le risposte giuste. Ad esprimerne le istanze si incarica poi il leader carismatico, che assume la veste di oracolo insindacabile (ducismo), in quanto in rapporto di identità diretta, immediata con il comune sentire che promana dalla collettività. Il capo, in questo caso, non è solo colui che concentra su di sé tutto il potere ma anche il soggetto che sancisce l’inessenzialità delle mediazioni nei percorsi di rappresentanza. Può sembrare un paradosso e tuttavia c’è sempre una netta continuità tra certi rimandi alla democrazia diretta («uno vale uno», ossia ognuno ha pari diritto di scelta su qualsiasi materia, senza dovere delegare la sua decisione ad altri) e la sua risoluzione nella figura di un soggetto carismatico che, per le sue intrinseche qualità, più e meglio di qualunque altro raccoglierebbe il “comune sentire” espresso dalla moltitudine popolare. Se il sogno della democrazia diretta è l’abrogazione della rappresentanza, il ducismo ne realizza alcune aspetti, quanto meno sul piano simbolico. Poiché ribadisce che nel rapporto “diretto” tra folla e leader si esprimerebbe la veracità del comune sentire, altrimenti influenzato, se non manipolato, dall’azione dei corpi intermedi, costituti da partiti, istituzioni, sindacati e quant’altro, tutti accomunati dal volere conculcare la volontà popolare. L’identitarismo, in questo quadro, rimanda all’esistenza di un’«identità» profonda, immutabile, indiscutibile, che si accompagnerebbe ai caratteri di una nazione o comunque di una comunità coesa: si tratta della versione di poco più aggiornata delle teorie razziali e razziste novecentesche, quelle che postulano la fissità dei caratteri etnici in quanto espressione di una costituzione biogenetica immutabile, dalla quale fare derivare il diritto “naturale” alla sopraffazione del gruppo più forte e come tale da considerarsi “superiore” (suprematismo). Il sovranismo, infine, nell’età della globalizzazione più spinta, dove la ricchezza è il prodotto di una circolazione continua, soprattutto dei capitali, si pone l’obiettivo di fissare una volta per sempre nel territorio, attraverso una sua presunta protezione capillare, in genere esercitata attraverso il ricorso alle armi, l’edificazione di confini tangibili e con il presidio politico delle «forze sane della nazione», le basi per garantire la prosperità sociale: da ciò, il rifiuto dei processi migratori, le fantasie ripetute sull’«invasione dello straniero» ma anche un profondo autoritarismo, che attribuisce alle autorità pubbliche funzioni prevalentemente repressive nei confronti di tutto ciò che non sia uniformabile ad un non meglio precisato «interesse comune». Populismo, identitarismo, sovranismo, radicalismi alimentano incessantemente, a proprio beneficio, una percezione diffusa e condivisa di «panico identitario». Che cosa vuole dire? Indicando nel cambiamento sociale, economico, culturale in atto una minaccia alla continuità esistenziale degli individui, come delle società di cui sono parte, offrono dei bersagli contro i quali indirizzare la propria angoscia, che così si fa rabbia e poi furore. Al medesimo tempo, per incentivare questo comportamento, alimentano l’ansia da spossessamento, quella per cui sempre più spesso molte persone si sentono messe in discussione, a partire da uno status sociale declinante, nel loro ruolo e nella identità che ritenevano di avere consolidato una volta per sempre. Detto questo, va ribadito che più ad un ritorno del “fascismo” classico si ha semmai a che fare con uno spostamento collettivo dell’asse politico verso alcune sensibilità tipiche della destra radicale. Il linguaggio adottato nella discussione pubblica ne è un indice rilevante: si tratta dello “sdoganamento” di parole dietro alle quali si cela un universo mentale che si fa in qualche modo proposta politica. Un fatto che ha investito una parte sia dell’Europa che degli Stati Uniti. Con riflessi anche in altre parti del mondo (l’India hindu, ad esempio), laddove i processi di globalizzazione hanno ulteriormente agevolato l’espansione di atteggiamenti, pensieri e condotte basate sull’intolleranza sistematica. Fermo restando che una facile e diretta equazione tra fondamentalismi, neofascismi e intolleranza, da sé spiega molto poco, dovremmo semmai interrogarci sul perché gli accentuati autoritarismi, profondamente illiberali ai limiti del liberticidio, raccolgano, così come nel passato, di nuovo un crescente seguito. Non solo di militanza ma, più in generale, di consenso. Tacito finché occorre, poi manifesto quando se ne creino le condizioni per la sua emersione. È infatti netto e indiscutibile il nesso tra questo andamento (che si intreccia alla dirompenza dei sovranismi e degli identitarismi), con la persistente egemonia culturale di un discorso politico dominante che invece impone agli individui, nei momenti del bisogno, nessun riparo che non consista in altro che non sia il rifugiarsi in se stessi. La permanenza e il lievitare dei radicalismi sono fenomeni interconnessi alla crisi dei sistemi di protezione sociale e, più in generale, al declino della funzione redistributiva dello Stato e delle amministrazioni pubbliche. Quand’essa si ricollega e si annoda alla trasformazione che il lavoro sta subendo, oramai da almeno tre decenni a questa parte, con la disintegrazione del sistema dei diritti, è la stessa idea di cittadinanza sociale che viene a rarefarsi, fino a ripiegare su di sé, in attesa che intervenga qualche forza “provvidenzialistica”, capace di colmare un vuoto nei confronti del quali gli individui sono completamente disarmati. Non meno che impauriti. Il ritorno della tentazione fascista sta nel fatto che essa offre di sé un’immagine protettiva. E come se dicesse ad una folla di individui angosciati, interpellandoli individualmente: “se ti senti abbandonato dalle istituzioni, se ti ritieni leso nei tuoi diritti, se temi di essere espropriato di ciò che già hai ma che pensi possa esserti ingiustamente sottratto, noi potremmo essere la tua soluzione”. Poiché il fascismo, trascorso come presente, veste da sempre i panni sia della distruzione del “nemico” sia della tutela degli omologhi a sé. Sono le sue due polarità fondamentali: eliminazione di ciò che è visto come diverso (ossia lo stesso pluralismo politico, culturale e sociale) e, quindi, presentato in quanto minaccia; offerta di riconoscimento ai soggetti “obbedienti”, destinati ad allinearsi e a comportarsi in omaggio al canone dominante. Non a caso, quindi, ricorre continuamente ai discorsi sull’«identità», sulla «terra» (intesa come «sangue e suolo»), sullo «straniero», sull’«invasione» e sulla «minaccia», sul «popolo e la morale» (soprattutto nel senso di una ipotetica rottura dell’ordine naturale, sul quale si fonderebbe qualsiasi etica pubblica, e della funzione delle autorità carismatiche come strumento per ripristinarlo), sull’«élite traditrice contro il popolo autentico» (ovvero della falsa lotta dal basso contro l’alto), quindi sulla «prossimità» tra «identici» e la «distanza» rispetto ai «diversi». Il transito è allora quello del capovolgimento della lotta sociale: non più dei “poveri” contro i “ricchi” ma dei “meno poveri” contro i “più poveri” e non per distribuire le risorse esistenti in maniera più equa ma, piuttosto, per accaparrarsene il maggiore numero possibile, a danno degli altri. Il declino della democrazia partecipativa ne è il suggello, insieme al riaffermarsi della liceità delle diseguaglianze più esasperate come paradigma di fondo delle nostre società. Affermare che questi disequilibri strutturali siano il prodotto di una presunta naturalità dei meccanismi di «mercato» equivale all’antica affermazione per cui, dinanzi ad un massacro di indifesi, ci si rassicurava dicendo: «Dio lo vuole!».
Claudio Vercelli
(4/continua)
(11 febbraio 2018)