Icone e iconoclasti

Emanuele CalòLa piaga del buonismo e del politicamente corretto, categorie diffuse ma criptiche, potrebbe perseguitarci come una pandemia di cui si può predire l’inizio ma non la fine. Fra l’altro, chi in tale ambito è buono e corretto con uno, finisce sovente per essere cattivo e scorretto con l’altro. Non a caso i loro sostenitori si son ben guardati dal richiamarsi alla bontà e alla correttezza, ripiegando prudentemente su buonismo e politica. Un poco come il marxismo, perché mentre a nessuno passerebbe per la mente di dirsi materialista, definirsi come materialisti dialettici oppure storici è tutt’altra cosa, anche perché in quel caso funziona l’effetto Mc Guffin descritto da Alfred Hitchcock e diffuso in Italia da Walter Chiari col c.d. sarchiapone. Effetto che deve aver funzionato egregiamente quando, ere geologiche addietro, il compromesso, termine non esaltante, era stato anch’esso nobilitato qualificandolo come ‘storico’.
Ne discorriamo in quanto potremmo diventarne, se non vittime, quanto meno succubi; facciamo riferimento alla prassi ormai invalsa della creazione di icone, intese nell’accezione di modello da seguire, meglio ancora se in modo adorante.
Rientrano in questa categoria anzitutto alcuni giornalisti, apprezzati non per il loro indubbio valore professionale, bensì per le loro virtù morali, meglio ancora se unite ad un’aura diffusa di neo martirologio.
L’effetto di questa ingegnosa trovata consiste nel reclutare, in modo del tutto virtuale, non solo dei giornalisti, ma pure dei cantanti, attori, registi, scrittori, direttori d’orchestra, professori universitari e così via. Ricordo che quando fu rapito Aldo Moro, un compagno di facoltà mi disse con voce tremula: “parlerà xy”, come se il professore in questione, assurto a guru, avesse afferrato la barra del timone per dettare la linea, spiegare gli eventi ed assolvere ad una funzione consolatoria, tutto in unica soluzione, implicando ovviamente che tutti gli altri fossimo incapaci di capire alcunché senza di lui.
In campo ebraico, questa bizzarra consuetudine ormai ha pervaso di sé i mass media, ragion per cui, per dire, un assessore alla cultura di un ente ebraico, dal più piccolo al più grande, anche se avesse riempito gli scaffali delle biblioteche coi suoi volumi, non vale più nulla e viene chiamato al suo posto un cantante, un giornalista, un attore, un regista e, se si trova a passare da quelle parti, finanche un direttore d’orchestra, la cui bacchetta si rivela non solo musicale, ma anche magica.
Lo scarso apprezzamento per lo studio, anche se non si può escludere che qualcuno dei componenti delle citate categorie possa aver scritto saggi indimenticabili, porta in ogni caso a preferire le icone (“sant’uomo”, leggevo su Facebook, a proposito di un artista, ipotizzando che vivesse in un eremo, nutrendosi d’erba cipollina e abbeverandosi ai ruscelli) a chi ha dedicato l’esistenza allo studio scientifico e senza pregiudizi dell’identità e della storia dell’ebraismo, per non dire dei Rabbini, quasi mai chiamati in causa anche laddove preposti alla cultura in importanti enti ebraici ed autori di testi pregevoli e, al contempo, di piacevole lettura.
Ricordo quando il compianto Bruno Zevi, giustamente, criticò l’immagine di Gandhi scelta dai radicali, ricordando l’atteggiamento dell’ebraismo nei riguardi delle immagini e, soggiungerei, delle icone. Quando uno di noi viene consacrato come icona – e succede più spesso di quanto non si creda – consiglierei di ripensarci, perché è molto più bello, anche se rischioso, essere considerati per quello che si è.

Emanuele Calò, giurista