Società – Il laboratorio del nostro scontento

La vittoria di Movimento Cinque Stelle e Lega nelle elezioni del 4 marzo è un evento spartiacque nella politica italiana, descrive l’entità dello scontento sociale che alberga nel nostro Paese. E apre la strada ad un governo tanto difficile da formare quanto capace di innescare conseguenze imprevedibili in Europa. L’evento spartiacque viene dal fatto che i governi della Repubblica italiana erano stati finora guidati o condizionati da De, Psi, Forza Italia e Pd ovvero forze appartenenti alle maggiori famiglie politiche europee – popolare e socialista – mentre adesso a vincere sono formazioni di origine differente, la cui legittimazione viene dal rappresentare istanze specifiche – su economia, sicurezza e identità locali – accompagnate da un forte sentimento di sfiducia nelle istituzioni rappresentative. Ovvero, ciò che accomuna i vincitori del 4 marzo non sono le radici nell’Europa del Dopoguerra bisognosa di pace ma nell’Europa della protesta contro gli effetti della globalizzazione iniziata dopo la Guerra Fredda. Lo scontento sociale in Italia si era già affacciato con l’esito delle elezioni amministrative del giugno 2016 – frutto della protesta delle periferie – e la bocciatura del referendum costituzionale del 4 dicembre – con una partecipazione record – ma i partiti tradizionali di matrice socialista e popolare hanno chiuso gli occhi davanti all’entità della protesta. Che aveva, ed ha, molteplici genesi: disoccupazione giovanile, delocalizzazione delle aziende, concorrenza sleale, perdita di speranze, corruzione, criminalità locale, presenza di migranti, assenza di speranze. Tale mosaico di scontento non è una peculiarità italiana: ha generato la Brexit in Gran Bretagna, la vittoria di Donald Trump negli Stati Uniti, ha consentito a Marine Le Pen di raccogliere 10 milioni di voti in Francia e ad “Alternativa per la Germania” di raggiungere il 13 per cento. È l’Occidente ad essere il palcoscenico della protesta del ceto medio che si considera impoverito dalle diseguaglianze, aggredito dagli stranieri e dimenticato dai partiti tradizionali. Ciò che distingue l’Italia è l’essere il primo Paese dell’Europa continentale a vedere il successo delle forze antiestablishment e la peculiarità che Movimento Cinque Stelle e Lega ne rappresentano volti diversi, concorrenti, spesso conflittuali. Basta guardare dentro le file degli schieramenti vincitori del voto per accorgersi di tali differenze. Nella risposta alle diseguaglianze economiche i Cinque Stelle puntano sul reddito di cittadinanza ovvero l’intervento pubblico contro la disoccupazione mentre la Lega preferisce abbassare le tasse e rivedere la legge Fornero per promuovere il lavoro. E sui migranti i Cinque Stelle includono le posizioni più diverse mentre la Lega sposa le istanze più rigide. Ciò significa che gli elettori italiani hanno avuto a disposizione due consistenti opzioni diverse anti-globalizzazione, come non era finora avvenuto in alcun Paese occidentale. E le hanno premiate entrambe. Questo trasforma l’Italia in una nazione-laboratorio dell’affermazione di nuove forze frutto dello scontento sociale, estranee a linguaggi e dinamiche del secondo Novecento. Con tutti i pericoli di instabilità politica e degenerazione razzista, ma anche le opportunità di riforme sociali, che ne conseguono. È questa la delicata cornice nella quale il Capo dello Stato, Sergio Mattarella, è atteso dal compito istituzionale di accompagnare le forze politiche nella formazione del governo. Tentando di disinnescare l’apparente ingovernabilità con ogni carta a disposizione: a cominciare dalle diverse opzioni del Pd dopo le dimissioni del segretario Matteo Renzi. Se l’Europa guarda, con timori e sospetti, verso Roma è perché ciò che accomuna Di Maio e Salvini è un approccio conflittuale all’Unione europea, alla Bce e all’euro. E la nuova legislatura include nel 2019 le elezioni europee, con la nomina della Commissione e delle più alte cariche dell’Ue, ovvero l’Italia avrà voce in capitolo e diritto di veto – al pari di ogni partner – su decisioni di valore strategica. Questo è il motivo per cui Steve Bannon, teorico del nazional-populismo americano, vede nell'”Italia dei populisti” un possibile cavallo di Troia dentro l’Unione europea. Saranno le prossime settimane a dire quanto Di Maio e Salvini saranno capaci di rispondere alle forti attese degli italiani “dimenticati” che G hanno premiati nelle urne. II terreno è la responsabilità che dimostreranno nella partita per la formazione del governo. E si tratta per entrambi di un primo, ma già decisivo, test di leadership.

Maurizio Molinari, La Stampa, 8 marzo 2018