Periscopio – Due della Brigata
Sto leggendo, in questi giorni, un bellissimo romanzo storico, “Due della brigata”, di Miriam Rebhun (Belforte Editore), nel quale l’autrice ricostruisce, sulla base di testimonianze epistolari e ricordi familiari, la commovente e drammatica storia dei due fratelli gemelli, ebrei tedeschi, Heinz (suo padre) e Gugy Rebhun, che, costretti, negli anni ’30, a lasciare la Germania nazista, cercarono di costruirsi un nuova vita in Palestina, dando entrambi, in forme diverse, un grandissimo contributo alla fondazione dello Stato di Israele, per la cui nascita entrambi sacrificarono, purtroppo, le loro giovani vite.
Il libro è particolarmente avvincente (soprattutto per chi, come me, ha l’onore non solo di essere amico dell’autrice – scrittrice di grande talento -, ma anche di esserlo stato, nell’ultima fase della sua vita, di sua madre, Luciana Gallichi, moglie di Heinz, che ritrova nel libro come una giovanissima, dolce e coraggiosa ragazza napoletana, nella tempesta della guerra), costruito sulla base di una documentazione storica particolarmente minuziosa, rigorosa e accurata. E la lettura ha rafforzato una mia ormai radicata convinzione – già espressa, talvolta, su queste colonne -, secondo cui la narrativa sia una forma essenziale di conoscenza storica: la storiografia meramente scientifica, fatta di numeri, date, luoghi, documenti, non basta, da sola, a rendere il senso dei sentimenti, del dolore, dell’amore, degli uomini veri che hanno fatto, o subito, la storia.
Ma non è del libro che ho intenzione di parlare, bensì soltanto della sua copertina, e segnatamente delle due fotografie che la corredano, ciascuna delle quali vale, da sola, un intero romanzo. In alto, una piccola fotografia ritrae i due fratelli Rebhun, credo ventenni, assolutamente identici, con l’identico sorriso e l’identico sguardo ammiccante e divertito. Chi dei due è Heinz, chi è Gugy? Solo Miriam lo sa, e solo per lei può avere importanza. Per tutti gli altri, sono solo i due gemelli, i “due della Brigata”. Al centro della copertina, campeggia invece una foto di un gruppo di giovani arruolati nella Brigata ebraica dell’esercito inglese (quella che diedero un fondamentale contributo all’abbattimento del nazismo e alla liberazione, in particolare, dell’Italia, e che, nelle manifestazioni a ricordo della Resistenza, viene puntualmente insultata dai nuovi fascisti), che, in posa per una foto di gruppo, compongono, intrecciando sei fucili, una grande stella di Davide.
Da entrambe le foto mi pare che emergano una serie di domande, e anche una forte, implicita risposta.
La prima foto sembrerebbe semplice e naturale, ma pare invece esprimere un doloroso, inquietante ossimoro, scaturente dal corto circuito scatenato dal radioso sorriso dei due gemelli e la terribile didascalia dell’immagine: Berlino 1936. Come potevano i due ragazzi essere, o sembrare, così allegri e felici, nel momento in cui il loro Paese stava stringendo loro, i loro genitori e l’intera loro comunità in una morsa mortale, costringendoli, di lì a poco, a fuggire, in cerca di una nuova vita? Possono due condannati a morte sorridere così, a un passo dal patibolo? Erano pienamente consapevoli di quanto stava accadendo?
Anche dalla seconda foto sembra emergere un paradosso, un ossimoro, che è quello della stella di Davide – utilizzata, proprio in quegli anni, per segnare gli ebrei come vittime sacrificali – trasformata in un simbolo di rivalsa e di riscatto. Fucili non contro gli ebrei, con la stella di Davide cucita sul bavero, ma una stella di Davide di fucili, in mano ad ebrei, sulla strada della redenzione e del riscatto. Vedere un simbolo religioso fatto di armi potrebbe sembrare, forse, blasfemo, ma quella foto a me sembra invece una sorta di preghiera, e la guardo con lo stesso ammirato rispetto che provo leggendo il libro dell’Esodo. Scegliere la vita, in ottemperanza al comandamento della Genesi, non è sempre facile, a volte richiede rischio, lotta, sacrificio. Per Mosè, così come per i “due della Brigata” e i loro compagni.
Dal sorriso dei fratelli Rebhun, in procinto di abbandonare la loro patria-prigione, così come dal Maghen David di fucili, mi pare quindi emergere un monito, un insegnamento morale di eterna attualità. Nel mondo del Faraone, di Amalek e di Hitler, è imperativo attingere, dal fondo della propria coscienza, la propria forza d’animo, e reagire. Non c’è spazio per la tristezza, né per la resa.
Francesco Lucrezi, storico