…Pesach

Pesach è, nell’ebraismo, la festa della liberazione, ma è anche la festa degli interrogativi.
È una festa in sé, che celebra e commemora la libertà ottenuta, ma è anche un momento essenziale di formazione per la coscienza ebraica. Il popolo si libera dal giogo della schiavitù per costituirsi in nazione, ma l’esperienza della schiavitù gli ha anche insegnato a riconoscere il significato dell’asservimento e il valore della libertà. Gli ebrei hanno imparato, una volta per tutte, che cosa significhi essere stranieri, un’esperienza che diventerà, d’ora in poi, un cardine del pensiero ebraico: “E non opprimerai lo straniero, perché voi sapete cosa prova lo straniero, essendo stati stranieri in terra di Egitto” (Esodo 23:9). Essere estranei all’altro, isolati, rifiutati, privi di appartenenza e di stabilità.
Schiavitù e libertà sono due esperienze alla radice della storia ebraica e diventano fondamenti della coscienza ebraica, ribaditi con continuità dalla cerimonia del kiddush, in cui lo Shabbat stesso è dichiarato ‘ricordo dell’uscita dall’Egitto’ – ‘zecher litziat mitzraym’. Perché lo Shabbat è esso stesso liberazione dagli impegni della settimana e momento essenziale della formazione della coscienza ebraica. (Altri potrebbe aggiungere che la liberazione del popolo ebraico dalla schiavitù è avvenuta perché il popolo potesse rispettare lo Shabbat.)
Nascono da queste considerazioni alcuni interrogativi che valgono per tutta la nostra esistenza. Innanzitutto, chi si debba considerare straniero; chi si abbia noi il dovere di ‘non opprimere’. Ma anche interrogativi che riguardano il nostro stesso possibile ritorno alla schiavitù, schiavitù a idee che non sono in sintonia con la nostra identità, idee a cui ci adeguiamo come a idoli, senza mettere in pratica lo spirito critico che dall’ebraismo avremmo dovuto imparare. In interrogativi come questi Pesach continua a significare e a rafforzare il suo valore.

Dario Calimani, Università Ca’ Foscari Venezia