Canto di speranza

valentina di palmaInizio settimana. Per colazione finiscono i biscotti di Pesach all’arancia, in barba a chi sosteneva che i quasi due chili acquistati sarebbero durati mesi (ma del resto anche le matzot, opportunamente acquistate di nuovo di Chol HaMoed, sono avanzate in quantità assai limitata). Persino chi ancora non parla ha imparato ad indicare i biscottini tondi della scatola arancione urlando trionfante ‘scottoooo’, e sarà difficile spiegarne l’improvvisa sparizione.
Stancamente ci accingiamo a riportare la cucina al suo usuale aspetto, via le stoviglie di Pesach nell’armadio apposito; ritornano dagli scatoloni della soffitta gli utensili che non casherabili che erano stati messi da parte. Stancamente per il poco sonno dei giorni precedenti, compresa Motze Shabbat la schamezzata con pasta e pizza (quest’ultima ingurgitata dai bambini prima che gli adulti avessero neppure il tempo di sentirne il profumo, ma ad onor del vero era stato detto loro che ne sarebbero stati gli unici destinatari). Stancamente, il ricordo della serata appena trascorsa ha lasciato l’amaro in bocca: non si sa bene come, la conversazione ha preso la piega scivolosa dei problemi dell’appartenenza identitaria e della partecipazione giovanile nelle piccole realtà ebraiche, una volta che i bambini divenuti ragazzi ed affrontata la maggiorità religiosa, con l’arrivo dell’adolescenza, spesso si allontanano.
Mi dimeno inquieta sulla sedia, toccata dalle argomentazioni dell’interlocutore che di fatto condivido pur consapevole delle difficoltà oggettive di una vita in questo tipo di diaspora. Mi tornano in mente le osservazioni del nostro precedente capoculto, israeliano, che era arrivato per guidare una piccola comunità e pur avendo studiato per la sua missione aveva scoperto che cosa significasse essere lontani solo una volta arrivato in Italia. Ma, mi aveva detto prima di ripartire cinque anni dopo, me ne vado lasciando una situazione di maggiore consapevolezza e di partecipazione più consapevole.
Si tratta solo di un bilancio ottimistico di qualcuno che, comunque, dopo alcuni anni ha fatto la legittima scelta di crescere i figli di nuovo in patria ed ha considerato esaurita la propria funzione? A me personalmente è bastevole e posso accontentarmi? Tu sei sempre insoddisfatta e gli sforzi educativi e di partecipazione alla vita comunitaria non bastano mai, risuona una vocina accusatoria neppure tanto silenziosa. Ricordo la commozione, tempo fa, di essere passata davanti alla scuola ebraica di Roma accompagnata dalle voci dei bambini che stavano cantando la Birkat HaMazon. Rammento anche uno Shabbaton in un’altra città, alla presenza di ragazzi provenienti da una comunità grande in cui frequentavano la scuola ebraica, dove avevo notato con sorpresa come le prospettive a volte siano ribaltate: loro conoscevano bene la Birkat HaMazon dei giorni feriali, praticandola quotidianamente a scuola, ed i bambini presenti che provenivano da piccolissime Keillot viceversa integravano il loro canto con le parti relative allo Shabbat, dato che quello sentivano nelle occasioni dei pranzi del sabato in comunità e, per alcuni di loro, quello praticavano in famiglia, non durante la settimana con gli orari diversi dei vari membri e la frenesia della vita scolastica e lavorativa a causa delle quali la benedizione dopo il pasto non veniva recitata, ma nella tranquillità del riposo sabbatico quando tutti insieme dopo mangiato intonavano Shir HaMaalot.
Forse, come ha sottolineato Rav Jonathan Sacks nella sua derashà del settimo giorno di Pesach in Tempio a Firenze (perché tra le cose diverse e piacevoli di questo Pesach c’è stato anche il suo arrivo), fintanto che il nostro lavoro ebraico è devoto alla riflessione ed allo studio, emergono la pluralità di opinioni e talvolta le dissonanze e le polemiche, secondo il famigerato detto ‘un ebreo due sinagoghe’, così come, ricorda un midrash, il popolo arrivato davanti al Yam Suf si ferma e si divide in quattro fazioni discordi sul da farsi (davanti c’è solo l’acqua: buttarcisi dentro, come nello straziante suicidio di alcuni villaggi est europei che per non consegnarsi in mano nazista hanno camminato in acqua sino all’annegamento? Oppure tornare in Egitto, entrare nello Judenrat e collaborare con il carnefice, forse nel tentativo di salvare oltre a se stessi altre persone? O ancora ribellarsi oltre ogni speranza, attaccando gli egiziani giunti all’inseguimento, come l’SS che sovrintende le operazioni di ingresso nelle camere a gas, perché anche se non c’è più alcuna speranza di sopravvivenza dignità significa un atto estremo e disperato di ribellione? O, infine, pregare, affidarsi al Signore, come nei canti ricordati da Liliana Segre nel vagone che la stava conducendo ad Auschwitz).
Ma quando si tratta di cantare, pur nella assoluta diversità dei minhaghim di ogni Comunità nel mondo, le voci in qualche modo si accordano, tutti riescono a ringraziare insieme intonando la Shirat HaYam una volta in salvo e richiusesi le acque su Paro ed i suoi soldati, la musica ed il canto riescono a suggellare l’unità del popolo ebraico. E a dare una speranza.

Sara Valentina Di Palma