Un’altra Europa
La piena e “rotonda” vittoria di Viktor Orbán alle elezioni politiche ungheresi dell’8 aprile scorso segna un ulteriore passo nell’identificazione dei tratti costitutivi di un’Europa diversa da quella che l’Unione continua invece a professare pubblicamente come unica possibile. Più che lo scontro tra due opzioni distinte (federalisti contro sovranisti), è semmai l’inarrestabile logoramento della formula delle Comunità continentali ad essere al centro del processo politico che da quasi un decennio ha investito i paesi dell’Est e che ora si preannuncia come esportabile anche in quelli occidentali. Già l’Austria ne ha data manifestazione in tal senso ma nulla vieta di pensare che la stessa Germania potrebbe esserne interessata, prima o poi. Su Orbán si possono nutrire le più accese perplessità ma non si può negare che abbia raccolto un notevole consenso tra i suoi connazionali. Domenica scorsa più del 70% degli aventi diritto (quasi cinque milioni e mezzo su otto milioni di ungheresi) si sono recati alle urne, consegnando al Fidesz, l’Unione civica ungherese, il 48,90% dei consensi (134 seggi dei 199 che compongono il parlamento monocamerale), seguito da Jobbik, Movimento per un’Ungheria migliore (25 seggi) e poi dal Partito socialista (20 seggi). Per la cronaca, durante tutta la legislatura uscente il Fidesz di Orbán era rimasto in vetta ai sondaggi, rivelando un gradimento popolare pressoché costante. Di fatto, un’opposizione parlamentare capace di contrastare l’ex liberale divenuto per la quarta volta primo ministro (in un Paese che assegna scarsi poteri alla presidenza della Repubblica), è pressoché inesistente. La grande raccolta di voti Orbán l’ha fatta soprattutto nelle ampie aree rurali. A resistergli è rimasta perlopiù la capitale Budapest, dove dodici dei diciotto seggi uninominali sono andati ai suoi avversari. Nella parte restante della «nazione magiara», la destra conservatrice e “populista” ha mietuto assensi senza difficoltà. Questo nonostante le ripetute accuse di corruzione che da tempo sono indirizzate al partito di maggioranza relativa. La piattaforma di Fidesz e dei suoi alleati ha giocato su pochi ma chiarissimi elementi. Primo fra tutti, il richiamo alla plausibilità di una «democrazia illiberale». In più occasioni Orbán ha avuto modi di affermare che la democrazia (intesa essenzialmente come partecipazione della collettività al processo decisionale attraverso il voto) non implica necessariamente il liberalismo politico, essendo quest’ultimo incapace di indurre i governanti a «difendere prioritariamente gli interessi nazionali, a proteggere la ricchezza pubblica e lo stesso paese dall’indebitamento». A ruota il leader della destra aveva già avuto modo di teorizzare la coerenza di una «democrazia illiberale», affermando che essa non lederebbe in alcun modo la libertà dei singoli, pur non rifacendosi al liberalismo come impianto culturale attraverso il quale garantire il pluralismo istituzionale (al quale peraltro molti ungheresi paiono essere scarsamente interessati). Modelli di riferimento di Orbán sono, non a caso, paesi come la Russia di Putin ma anche la Turchia di Erdogan così come la Cina, l’India e Singapore, accomunati da una rilevante crescita economica senza che ad essa si accompagni uno sviluppo delle libertà politiche. Il suo antiliberalismo è peraltro in linea con molti dei dettami del liberismo economico, caldeggiando una politica interna contraria all’intervento pubblico e favorevole al mercatismo libero-scambista. L’individualismo concorrenziale che una tale posizione alimenta a piè sospinto risulta del tutto compatibile con l’autoritarismo istituzionale. Un altro elemento della piattaforma politica conservatrice è costituito dall’opposizione alle immigrazioni. Di fatto questa posizione ha costituito il volano di auto-accreditamento per Orbán dinanzi al grande pubblico. Infatti, l’ha trasformata in uno strumento di rifiuto delle politiche dell’Unione, ripetutamente accusata di una calcolata e strumentale debolezza in materia, accomunandola quindi all’aborrita visione liberale delle relazioni sociali, fondata sull’ipocrisia moralista ma anche sulla volontà di espropriare le sovranità nazionali delle loro giurisdizioni. In anni recenti il premier ha attaccato i musulmani, presentandoli come una minaccia per il futuro della «civiltà europea». In poche parole, per Fidesz, per Jobbik e per il blocco politico conservatore l’ingresso di immigrati non minerebbe solo l’«identità magiara», creando inoltre innumerevoli problemi economici, ma sarebbe parte di un processo di erosione e sfaldamento del paese medesimo, in parte agevolato, se non voluto, dai fautori della globalizzazione nell’Unione europea. La retorica complottista, non a caso, ha avuto ampio seguito nel corso della campagna elettorale, accostando la matrice liberale delle politiche europee agli spregiudicati calcoli d’interesse delle élite antinazionali. L’ombra dell’antisemitismo, costantemente negato da Orbán, ha trovato nell’ossessiva polemica contro il miliardario George Soros, e le Open Society Foundations, un fattore di forte richiamo. Per Fidesz il cosmopolitismo è alla radice di molti dei mali delle società contemporanee, trattandosi di una prassi politica che, dietro lo schermo del multiculturalismo, celerebbe la sua più autentica intenzione, quella di procedere all’espropriazione delle ricchezze nazionali dei popoli, annullandone inoltre le specificità identitarie. Un posizionamento così radicale, in una nazione che ha dovuto confrontarsi in maniera modesta con i processi migratori, si è quindi rivelato funzionale sia al rafforzamento dell’antieuropeismo (a favore, invece, di quell’«Europa delle nazioni» caldeggiata dal gruppo di Viségrad) sia alla battaglia contro Angela Merkel, soprattutto nel merito della politica delle quote di rifugiati e profughi che ogni paese dell’Unione dovrebbe raccogliere. Il rapporto con la Germania costituisce peraltro un tema sensibile almeno dal 1989, con il definitivo declino del bipolarismo. La capacità di esercitare una solida influenza economica da parte di Berlino sull’area mitteleuropea, ed in particolare sulla direttrice che dal Baltico porta ai Balcani, ha condizionato il definirsi degli assi preferenziali della politica di quelle nazioni che hanno misurato la loro posizione di cuscinetto rispetto alla Russia e alla Repubblica federale di Germania. Di fatto questo aspetto, difficilmente percepibile e quindi comprensibile in altre parti del Continente, ha invece influenzato non poche scelte di cechi, slovacchi, polacchi e ungheresi. Anche nella diversità delle loro stesse posizioni e degli interessi nazionali. Il tratto comune a questi ultimi rimane il lascito ingombrante dell’esperienza del «socialismo reale», soprattutto laddove essa ha costituito per almeno quarant’anni, dal 1945 al 1989, un lungo periodo di assenza di qualsiasi forma di pluralismo politico. Se è non meno vero che oramai quasi tre decenni dalla fine di quella storia sono trascorsi, vale tuttavia una sorta di riflesso condizionato, per il quale la sicurezza di una nazione è identificata tanto più con la forza autocratica degli esecutivi e non certo con la vivacità democratica la quale, secondo questo criterio, costituirebbe addirittura un fattore di indebolimento nella competizione con i mercati internazionali. La triste ironia, per così dire, è che la crescita economica di cui Viktor Orbán si è potuto avvantaggiare, presentandosi agli elettori come l’uomo capace di ottenere risultati concreti, è in non secondaria parte il prodotto delle linee di finanziamento e di sostegno offertegli dall’Unione europea.
Claudio Vercelli