Periscopio – 70 anni di Israele
Celebrare i 70 anni dell’Indipendenza di Israele è, indubbiamente, qualcosa di difficile, soprattutto se si vuole evitare la retorica. E si resta inevitabilmente sospesi tra sentimenti contrapposti in modo lacerante: gioia e amarezza, speranza e paura, gratitudine e rabbia, orgoglio e rimpianto.
Il 14 maggio del 1948 (secondo il calendario giuliano) ha segnato davvero qualcosa di incredibile, un’inaudita sfida contro la storia, che, pochi anni prima, aveva sembrato chiudere l’intero cammino dell’umanità all’insegna della definitiva vittoria del regno delle tenebre. L’esito dell’apocalittico scontro del ’39-’45 ha significato, al prezzo di decine di milioni di morti, che la parola ‘civiltà’, comunque la si voglia intendere, aveva, doveva avere, comunque, ancora un senso, un futuro. Certo, non tutti, tra i vincitori, avevano tale parola particolarmente a cuore, né si può dire che tutti coloro che combatterono sul fronte opposto fossero dei sanguinari criminali. Non sarebbe rispettoso per tanti dei nostri genitori, nonni, bisnonni che, intossicati da decenni di propaganda malata, furono mandati al macello da un gruppo di farneticanti assassini. Ma non c’è alcun dubbio sul fatto che quell’Armagheddon abbia segnato un radicale spartiacque, un bivio definitivo. Se l’esito fosse stato un altro, vivremmo oggi in una notte dei morti viventi, e sarebbe stato senz’altro meglio, secondo me, se gli uomini si fossero estinti come specie, al pari dei dinosauri.
La piccola guerra del ’48-49 – con seicentocinquantamlia assediati contro decine di milioni di nemici, e il resto del mondo a guardare indifferente -, certo, occupa nei libri di storia uno spazio ben più ridotto, e si potrebbe pensare che, se avessero prevalso gli eserciti arabi – come secondo ogni logica, avrebbe dovuto ovviamente accadere – non sarebbe cambiato granché. L’America e la Russia sarebbero rimaste le due superpotenze, certamente non sarebbe scoppiata nessuna nuova guerra mondiale, l’Europa si sarebbe ugualmente unita e disunita, gli ebrei superstiti avrebbero continuato, come sempre, a vivere tra gli altri popoli, alla ricerca dei posti più accoglienti, e con la valigia sempre pronta.
E invece no. E non esito a dire che l’esito della guerra d’Indipendenza d’Israele ha avuto, per l’intera umanità, un significato non meno importante della sconfitta del nazifascismo. Gli sconfitti, infatti, anche se parlavano una lingua diversa, abitavano altre lande e professavano un’altra religione, si ponevano in una linea di diretta continuità con chi, pochi anni prima, metteva in atto il piano di distruzione di quel piccolo popolo, così fastidioso, molesto, urticante. Anche in questo caso, l’incredibile vittoria dei seicentocinquantamila – di cui ben seimila sarebbero caduti nel conflitto – ha aperto un’esile, fragile speranza, e ha permesso che fosse piantata una piccola bandiera di civiltà, di umanità, di giustizia. E, se non possiamo arrivare a dire che, piuttosto che una vittoria degli arabi, e uno sterminio degli ebrei di Erez, sarebbe stato meglio che l’umanità fosse finita, è un mero dato di fatto che tale risultato avrebbe significato una forma di rivincita di Hitler e di Mussolini. Coloro che si strappano le vesti, ogni anno, per commemorare la ‘Naqba’, la catastrofe rappresentata dalla nascita di Israele, rimpiangono che questa rivincita non ci sia stata. Ed è vero che questo evento significa, per loro, una Naqba, in quanto rivela il loro “cupio dissolvi”, la loro irrimediabile perdizione e catastrofe morale. E parlare di pace, su queste basi, è una pura perdita di tempo.
Qualcuno pensa che la bandiera di Israele, dopo 70 anni, abbia perso un po’ dei suoi sgargianti colori. Che il bianco sia un po’ meno immacolato, l’azzurro un po’ meno brillante. Forse è vero. Se Israele è entrato nella storia, ci è entrato come una realtà umana, con la carne, il sangue e le ossa dei suoi abitanti. Uomini tra gli uomini, con tutti i liniti e i difetti di tutti gli uomini. Certo, se la guerra fosse stata persa, Israele sarebbe esistita solo per qualche mese, e sarebbe rimasta un’idea fugace, un sogno interrotto, una figurina appoggiata per sbaglio sul mappamondo. E sarebbe stata ricordata per sempre così. Ci sarebbe stata una Shoah bis e oggi si potrebbe celebrare una doppia Giornata della Memoria. E tutti coloro che sarebbero stati, per quei pochi mesi, cittadini di Israele, sarebbero ricordati e onorati, in Europa, accanto alle vittime del nazifascismo, come dei martiri da commemorare, o degli eroi coraggiosi votati al sacrificio, come i combattenti di Masada. Tra 6.000.000 e 6.650.000 c’è forse una grande differenza?
Oggi, settant’anni dopo, altri sei milioni e seicentomila ebrei – l’attuale popolazione ebraica d’Israele – non esisterebbero, e il bianco e l’azzurro di quella bandiera sarebbero rimasti, lindi e chiari, nell’immagine patinata di qualche libro – magari accanto alla riproduzione di una moneta dell’effimero regno di Bar Kochbà -, senza macchie e senza ombre.
Ma così non è stato. Per questo quella bandiera va amata così com’è, con la sua gloria, il suo dolore, le sue sdruciture, i suoi strappi, la sua polvere. Che sia sempre più bella, ma – come tutte le cose vere e viventi – mai perfetta.
Francesco Lucrezi, storico