…Natalie

Povera Natalie Portman!
Lei, israeliana, trovarsi accostata al BDS, il movimento a favore del boicottaggio di Israele. E questo per aver rifiutato di ritirare il premio Genesis 2018, una sorta di Nobel israeliano. Sentirsi additata come ‘nemica’ di Israele non deve averle fatto molto piacere. Il ministro della Cultura ha persino proposto di revocarle la cittadinanza. Così la bellissima Natalie Portman ha dovuto precisare di non essere pro-BDS, ma solo contro Benjamin Netanyahu e una certa politica. Esattamente come un qualsiasi altro cittadino israeliano, libera di votare per un partito o per un altro, di sostenere un politico o un altro. Ma in Israele di questi tempi, la libertà di posizione politica ha vita dura.
Che ciò possa accadere lo si può anche capire. Il momento è difficile. Israele è stata spinta, e si è spinta, in un angolo. All’ONU viene spesso isolata da mozioni che disconoscono il carattere ebraico dei luoghi sacri all’ebraismo, Hamas è alle porte, l’Iran degli Ayatollah sta rendendo sempre più tangibili le sue minacce, la Russia di Putin non mostra un volto amico, Trump non sembra affidabilissimo. Insomma, qualche preoccupazione e un certo nervosismo hanno le loro motivazioni. Israele ha tutto il diritto di garantire la propria sicurezza, come ogni altro stato.
Il nervosismo di Israele si riflette nella Diaspora, dove le posizioni si fanno sempre più partigiane. Si scende in campo, lancia in resta, a difesa del campo o per censurarne aspramente le scelte. Come non esistono più le mezze stagioni così non esistono più le mezze misure, le sfumature dei colori. Si prende partito da una parte o dall’altra della barricata e si spara ad alzo zero. Il dibattito su Israele, in campo ebraico, è da tempo ormai una guerra di posizione.
Chi si è schierato a difesa non ammette che un governo e la sua politica possano essere criticati. E si ricorre al vecchio adagio per cui ‘chi non vive in Israele non ha diritto di pensiero e di parola’. Ma neppure ai cittadini israeliani che la pensano diversamente dal governo si riconosce diritto di pensiero e di parola: li si etichetta come traditori della patria. E ci si dimentica che qualcuno, a suo tempo, non solo si espresse liberamente contro il governo Rabin, ma plaudì al suo assassinio. Altri non dovettero sforzarsi troppo per giustificarlo con scuse blasfeme. A quel tempo, essere contro il governo non era considerato tradimento da coloro che ora sostengono Netanyahu a spada tratta o gridano al ‘complotto’ per difenderlo dalle accuse di corruzione.
Accovacciati nella loro trincea, a difesa del governo e a sostegno di un immobilismo politico che non sembra alla ricerca spasmodica di una soluzione di pace, i difensori di Netanyahu guardano con sospetto (non sempre immotivato) ai critici e ai detrattori della politica governativa.
Che i critici abbiano diritto di cittadinanza nell’agone politico non dovrebbe essere oggetto di dubbio. E non dovrebbe essere oggetto di dubbio che chi critica Netanyahu da sinistra (stavo cercando di evitare definizioni di questo genere, ma non ci si riesce proprio) non ama Israele meno di chi la difende da destra. Solo, l’amore conduce a diverse valutazioni del presente e a diverse visioni del futuro.
E, tuttavia, anche la sinistra, spesso rintanata in una trincea ideologica, non va esente da critiche. Nell’impegno a criticare una politica, si dà per scontata una storia che non è iniziata ieri, in cui le responsabilità vanno divise secondo le oggettive responsabilità di ciascuno, in cui non si possono dare per scontate le azioni politiche della parte avversa, le vittime del terrorismo, le minacce di distruzione di un paese e del suo popolo. È vero che la sinistra diasporica dà spesso la sensazione di guardare alla situazione israeliana con prospettiva parziale, tenendo aperto un solo occhio, e sorvolando sul fatto che Israele abbia diritto all’esistenza e alla sicurezza. La giustizia è possibile se è bidirezionale. E la pace è possibile se la vogliono entrambe le parti, con la stessa sincera convinzione.
‘Ma prima di far pulizia nel campo altrui bisogna far pulizia nel proprio campo’, mi ha detto, pressappoco, un intellettuale qualche giorno fa. Ossia, prima di criticare gli altri devo essere a posto con la mia coscienza. L’affermazione ha una sua fredda verità etica, che tuttavia non ha nulla a che fare con la realtà oggettiva. Perché allora avrebbero ragione a destra, quando dicono che non si può parlare delle ferite altrui mentre si discetta dei massimi sistemi (e della vita e della sicurezza altrui) fra un bagno e l’altro al club Méditerranée. Per sentirsi ‘giusti’ nel giudizio è necessario identificarsi con le ragioni di entrambe le parti in conflitto, non solo con quella che ti è più vicina o con quella che pensi più debole.
Se la disponibilità a riconoscere il diritto alla diversità di opinione si coniugasse con un minimo di realismo si potrebbe almeno riprendere a dialogare e, quanto meno, a capirsi, se non proprio a concordare.

Dario Calimani, Università di Venezia