Percorso senza fine
Gli accordi privati tra nascituro e madre per ora stanno funzionando, il bambino sembra aver recepito che alcune circostanze richiedono un atteggiamento consono e responsabile, ed ha acconsentito tacitamente ad aspettare a venire al mondo almeno sino a dopo lo scorso Shabbat, quando abbiamo potuto ascoltare in Tempio l’aftarà di Metsorà – che ormai conosco quasi a memoria per averla ascoltata, sentita, risentita, corretta… Terribile nel contenuto, a leggerla in traduzione (non solo malati di tzaraat ma anche furti, saccheggi e la terribile conclusione di un uomo calpestato a morte), cosa che ho risparmiato all’adolescente salito per la prima volta alla Tevà.
Anche la derashà tenuta dal rav ci ha toccato personalmente, soprattutto per due aspetti: l’importanza della purificazione dopo il parto e della milà come segno di identità fondamentale per l’appartenenza e per l’educazione ebraica, e la necessità di crescere sin dalla tenera infanzia figli ebrei senza procrastinarne l’educazione con la scusa che da adulti potranno decidere ‘in autonomia’.
I percorsi di chi cresce ai margini e poi compie la scelta, sentita spesso come un’urgente necessità, di far parte del Popolo, sono infatti perlopiù lunghi, incerti e dolorosi, intessuti di lacerazioni con la famiglia che anni prima aveva deciso di non decidere, di dubbi, di studio, di verifiche e prove, e di un’incompiutezza forse mai davvero superata anche quando il percorso di teshuvà o di ghiur giunge a buon fine – e questo purtroppo derivante anche dal tipo di accoglienza reale o parziale che il gher riceve. Rispetto al cammino a ritroso di accostamento, apprendimento ed accettazione, è molto più facile, e purtroppo diffusa, l’assimilazione di chi cresciuto in seno ad Am Israel se ne discosta, con il libero arbitrio del figlio cattivo che al Seder di Pesach ritiene le tradizioni siano per voi altri e non per noi – e del resto la scelta di essere tzaddik o rashà è solo, completamente nostra, dopo che HaShem ha invece determinato tutto il resto della nostra vita prima che inizi, come descrive il Talmud in Niddà 16.
La milà è dunque il primo, necessario momento, non solo perché è mitzvà che supera in importanza lo Shabbat tanto da tenersi anche nel giorno di riposo, o perché completa la creazione aggiungendovi qualcosa alla sua perfezione, tanto che il nome del bambino viene ufficializzato in occasione di questa cerimonia così come Adam ha avuto l’onore di prendere parte alla realizzazione del mondo attribuendo i nomi al creato, ma anche perché è segno di un patto eterno ed immodificabile, non a caso proibito in tutti i più gravi momenti di persecuzione, ed al contempo punto di partenza di formazione e di crescita.
Il nascituro, sentendo parlare di milà, si agita con forza, nonostante conosca tutta la Torà e quindi sappia bene che otto giorni dopo il suo arrivo tra noi attraverserà questo momento tanto importante. Insieme ci interroghiamo invece sul concetto spesso distorto ed incompreso di impurità dopo il parto, appena letto nella parashat Tazrià – sette giorni dopo aver dato alla luce un figlio maschio e quattordici dopo la nascita di una bambina, altra regola apparentemente inspiegabile. La madre è tameà non nel senso che debba espiare una colpa, dopo aver compiuto la mitzvà più importante per una donna ovvero aver preso parte come socia privilegiata alla creazione – socio insieme al Signore e alla madre è anche il padre, dice il Talmud in Niddà 31a, ma la madre ha l’onore ben più grande di ospitare in sé la nuova vita.
Gli altri casi di purificazione possono forse aiutare a comprendere la necessità di superare lo stato di tumà per la puerpera: si tratta di un rito simbolico di passaggio necessario a superare un momento di ‘opacità’ (secondo una più plausibile traduzione), di lontananza dal popolo e a tornare pienamente in esso, come per colui che ha malattie della pelle o per il nazir i quali hanno vissuto per un certo periodo separati e lontani.
Dopo aver vissuto nove mesi simbioticamente con il feto, la madre si trova a dover fronteggiare la condizione unica di trovarsi vicinissimi a dare la vita e, per il dolore ed i rischi del parto, al contempo tangente la morte, lo sfinimento e la sensazione negativa di non voler mettere al mondo altre vite per non soffrire più come il peccato di Havà ci ha destinato a patire sino all’Olam HaBà (Yeshaia 66,7), il contraddittorio e pericoloso senso di onnipotenza per essere riuscita nell’impresa e quindi tanto vicina al Creatore, la necessaria e dolorosa separazione dal neonato (e forse i giorni sono quattordici nel caso di una neonata non perché la mitzvà della milà accorci l’impurità nel caso di un maschio in modo che la madre possa prendere parte alla cerimonia, ma perché separarsi da quando di più simile a sè è più difficile e lungo, nonostante la capacità femminile unica di amare anche chi è completamente altro da sè in quanto maschio, come ci insegna Rada Iveković a proposito della mediazione femminile in Dame nation: nation et difference des sexes, Longo 2003).
Forse il senso più profondo della tumà dopo il parto è proprio questo: essere state per un attimo tanto prossime a toccare vita e morte come solo davvero il Signore può fare, insieme alla prima donna e a tutte quelle venute dopo di lei generazione dopo generazione, aver avuto la vita dentro di sé e doverne accettare ora l’autonomia ed insieme le sfide di un percorso educativo che non ha mai fine.
Sara Valentina Di Palma