Machshevet Israel – L’arte della guerra? Utile, a volte necessaria
Spiace contraddire un profeta come Isaia e dar contro al bel sogno messianico (che campeggia all’ingresso del Palazzo delle Nazioni Unite) sul giorno in cui “un popolo non alzerà più la spada contro un altro e nessuno si eserciterà più nell’arte della guerra” (Isaiah 2,4; Micà 4,3), Ma già un altro profeta, Joel, aveva immaginato il ‘giorno del Signore’ in modo opposto, gridando: “Con le vostre zappe fatevi spade e lance con le vostre falci; anche il più debole dica: Io sono un guerriero!” (4,10). Guerra e pace, forza e debolezza, oppressione e liberazione sono temi connessi su cui da sempre si interroga il pensiero ebraico. Al di fuori, almeno oggi, vige spesso una visione dualista della realtà, per cui la guerra è sempre ‘male’ e la pace è sempre ‘bene’. Beh, anche molti rabbini, e a lungo, hanno sposato questa posizione, alla luce del fatto che gli scontri armati contro l’impero romano avevano portato solo disgrazie sul popolo ebraico. Viste da vicino, però, le cose sono più sfumate, più concatenate l’una all’altra e solitamente hanno un’andatura evolutiva (anche la storia e non solo la natura non fa salti).
Nell’aprile 2016 l’associazione laica di cultura biblica Biblia ha promosso un convegno dal titolo “Regolare la guerra e intessere la pace” e fu subito criticata perché affermare che la guerra vada ‘regolata’ significa ammettere che la guerra sia moralmente lecita e non vada condannata in sé ma piuttosto solo sottoposta al potere della legge. Un po’ come certi dibattiti sulla prostituzione. I moralisti condannano mentre i realisti regolamentano. Gli atti di quel convegno sono apparsi ora con il titolo meno criticabile di “Guerra e pace in nome di Dio” (a cura di Piero Stefani, editrice Morcelliana). Contengono quattro interventi di specialisti, tra cui Piero Capelli, ebraista dell’università di Venezia, che ricostruisce la storia dell’interpretazione di Devarim/Dt 20, che tratta appunto delle regole dell’arte della guerra, del porre un assedio e del conquistare militarmente una città. Scrive Capelli: “La storia degli effetti di Dt 20 nella letteratura rabbinica delle origini rivela con quanta autonomia i rabbini si rapportarono al dettato della Scrittura e al sistema di valori che gli era proprio… Non era necessario spingersi a negare il dettato biblico secondo cui, se Israele combatteva, il suo Dio combatteva con lui; bastava affermare che era opportuno che Israele non combattesse. Non era un’innovazione rivoluzionaria, ma la semplice constatazione dello stato delle cose, dato che Israele non era comunque più in grado di schierarsi in armi contro nessuno. Il caso di Dt 20 esemplifica come l’ebraismo rabbinico riuscì a trasformare il comandamento della guerra in una educazione alla pace”.
Vero. Ma alla luce dei 70 anni di vita dello Stato di Israele, la situazione oggi si è nuovamente mutata e capovolta. Il comandamento della guerra e i testi su cui si fonda hanno dovuto essere ripresi, reinterrogati e ripensati, senza ignorare il primato della pace inculcato dai maestri per secoli. Il potere è una sfida etica a cui nessuno può sottrarsi: nel nostro piccolo, tutti dobbiamo essere forti. La forza è un attributo dell’esistenza, è la vita che ama se stessa, mentre amare la debolezza (mancanza di potere, malattia, sofferenza, ecc.) è semplicemente patologico. Neppure mistico, solo patologico. Al solito, è utile vedere cosa hanno detto i filosofi ebrei, a cominciare dal loro principe: Maimonide. Un passo emblematico, dove il Rambam si sente libero di esprimere un giudizio storico, lo troviamo nella sua Lettera sull’astrologia (1195): “Ciò che ha causato la perdita del nostro regno e distrutto il nostro tempio – scrive ai colleghi rabbini provenzali che volevano consiglio – è che i nostri padri, che non ci sono più, hanno peccato: infatti, trovando molti libri di astrologia (che sono alla radice dell’idolatria) erroneamente si sono lasciati irretire da queste idee ritenendole scienze esatte e di grande utilità. Ma in tal modo smisero di dedicarsi ad imparare l’arte della guerra e della conquista di terre, immaginando che fossero altre le cose utili. Per questo i profeti li chiamarono ‘stolti e insensati’”. In altre parole, Maimonide sta dicendo: sì, abbiamo perso Gerusalemme e il tempio ‘a motivo dei nostri peccati’. Ma quali sono stati questi peccati? Abbiamo smesso di perseguire l’arte della guerra per dedicarci a cose del tutto inutili, anzi foriere di idee idolatriche (come l’astrologia, quando usata per calcolare la fine della storia e la venuta messianica, pensando che il destino umano fosse nelle mani delle stelle e non nelle nostre mani).
Sarà un approccio razionalista ma resta illuminante: non tutti i maestri del passato hanno “condannato la guerra”; anzi, nello spirito realistico della Torà molti l’hanno valutata per quel che è: uno strumento estremo ma utile, e a volte necessario, per difendersi e difendere la vita. Im ein anì lì: se io non sono per me…
Massimo Giuliani, docente al Diploma Studi Ebraici, UCEI