Società – Se Abu Mazen sfregia la Shoah
La scena è la seguente: David Grossman, cinque anni fa, parla all’Università di Cagliari. E un militante palestinese pone allo scrittore israeliano una domanda: lei Grossman è d’accordo sul fatto che Naqba e Shoah si equivalgono? Naqba è l’esodo, spesso forzato, dei 700 mila arabi e la distruzione dei loro villaggi nel corso della guerra del 1948. L’altro giorno, Abu Mazen, ormai 83enne presidente dell’Autorità palestinese, parlando a Ramallah, è tornato a un vecchio cliché: sono stati gli ebrei con il loro comportamento a causare l’Olocausto. Vecchio, perché già nel 1982 scrisse una tesi di dottorato negazionista. Oggi invece, a sostegno del suo discorso antisemita, ha alluso a testi che avrebbe letto nel corso della sua vita e carriera. Fin qui la cronaca. Ma poi, detto senza perifrasi: è ancora aperto il problema della memoria, anzi delle memorie che a 73 anni dall’apertura dei cancelli di Auschwitz e a settanta dalla nascita dello Stato degli ebrei (e tra i due eventi c’è un nesso strettissimo) divergono sempre di più. Spieghiamoci. Abu Mazen ha voluto fare il suo sciagurato discorso alla vigilia di quella che i palestinesi chiamano “la giornata della Naqba”, celebrata il 15 maggio, data della proclamazione dello Stato d’Israele. E lo ha fatto con gli occhi rivolti a Gaza, nel tentativo maldestro di recuperare un minimo di consenso tra i discendenti dei profughi che popolano la Striscia e che, da qualche settimana, ogni venerdì cercano di sfondare le linee di confine israeliane. Ma resta il fatto, sottolineato, ma quasi sempre in privato, da qualche intellettuale arabo: i palestinesi e gli arabi non hanno capito cosa sia stata la Shoah, e finché non l’avranno compreso mancheranno loro gli strumenti culturali per confrontarsi con Israele, ma anche con l’Europa e la sua memoria e identità. In parole povere: Naqba, con tutte le sue atrocità, rientra nel processo di riordinamento di stampo etnico del mondo, avvenuto tra il 1945 e il 1948. In quegli anni la partizione dell’India causò milioni di vittime, musulmane e indù; in Europa centrale masse di persone vennero espulse dalle terre che abitavano da sempre, i tedeschi dalla Polonia e dalla Cecoslovacchia, i polacchi dall’Ucraina; mentre gli ebrei erano in fuga dai pogrom in Polonia. La Shoah invece è un’altra cosa: è la catastrofe dell’Occidente, della modernità, della stessa episteme, nel senso che viene reciso (lo aveva intuito Primo Levi) il nesso tra causa ed effetto. Ecco perché la ricostruzione dell’Occidente comportò la costruzione dello Stato degli ebrei. Ai tempi della guerra i nazionalisti arabi parteggiavano per Hitler e Mussolini e speravano che ad El Alamein vincessero Germania e Italia; al Cairo si preparavano grandi feste. Andò diversamente, e oggi l’Occidente a sua volta ha difficoltà con la memoria degli arabi, ad esempio poco si parla del massacro degli algerini l’8 maggio 1945, il giorno in cui cadde Berlino, a Sétif per mano dei francesi: le vittime si contarono a decine di migliaia. E per tornare ad Abu Mazen, i testi cui alludeva a Ramallah sono probabilmente quelli di alcuni studiosi marxisti che spiegavano quanto l’antisemitismo nascesse dalla posizione degli ebrei (intermediari e bancari) nella società occidentale. Ma è roba in larga parte superata da ricerche e riflessioni su quella catastrofe della modernità che, appunto, gran parte del mondo arabo stenta a capire. Forse, però, anche noi qui in Occidente cominciamo a difettare di memoria. L’antisemitismo è in crescita in tutta l’Europa, tanto che il governo tedesco ha voluto nominare, proprio in questi giorni, un incaricato alla lotta contro questa piaga, una specie di idra cui ricrescono le teste, ogni volta che nel Vecchio continente tira aria di crisi.
Wlodek Goldkorn, Repubblica, 3 maggio 2018