Setirot – Ritorno a Venezia
Ritorno, non semplicemente fisico, in Laguna. Beit Venezia, già Centro veneziano di studi ebraici internazionali (pagina Facebook Beit Venezia. casa della cultura ebraica – a home for jewish culture), ha inaugurato la “Residenza Napoleone Jesurum” che inizia il proprio percorso ospitando per tre settimane il noto drammaturgo israeliano Motti Lerner, il quale nell’occasione ha dialogato con Laura Forti, responsabile culturale della Comunità di Firenze e a sua volta drammaturga. Ovviamente orgoglio e commozione per il kavod a mio padre z”l. Non solo. Una piccola keillah, per altro – come quasi tutte le altre – con una discreta esperienza di conflittualità al proprio interno, ha ancora la voglia e la vitalità di confrontarsi con sfide importanti. Sente ancora la responsabilità e trova l’energia di mostrare al mondo che il cinquecentenario Ghetto continua da un lato a essere monito emblematico contro discriminazioni e sofferenze, e al medesimo tempo eterno cuore pulsante di scambi culturali, umani, religiosi. E io credo che noi abbiamo sempre più bisogno di messaggi e speranze che dal Ghetto scaturiscono quasi epidermicamente.
Ritorno a Venezia. Guardo la sinagoga spagnola dove cantava mio papà da ragazzo… respiro ciò che il Ghetto mi comunica. Messaggi e speranze, appunto, di libertà e dignità per ogni individuo oppresso da reclusioni fisiche e mentali, guerre, fame, attacchi terroristici, campi profughi, banlieue. E dunque quale miglior narrazione se non ciò che un tempo fu area di umiliazione, soprusi e sopraffazione per poi divenire – benché a fasi alterne – laboratorio di inclusione e infine, nella contemporaneità, straordinario luogo di incontro tra ebrei e cittadinanza? Così le calli anguste claustrofobiche e struggenti, i bui sotoporteghi, i campielli rilucenti, le case più alte della città per secoli abitate dal popolo cantato da Rainer Maria Rilke si mostrano per ciò che sono, il primo caso di segregazione organizzata e al medesimo tempo un “cortile” chiassoso e vitalissimo, spazio d’incontro tra culture e migrazioni. Mura e spessi cancelli che si chiudevano la sera sono stati e rimangono segno dell’intolleranza altrui, però possono divenire pure simbolo di autodifesa e autoconservazione. La contraddizione è forte e diviene simbolica, un luogo dell’anima dove preservazione di sé significa sia contatto e scambio all’interno della minoranza – tra ebrei provenienti da Spagna, Centro Europa, Medio Oriente –, sia intima contiguità con la maggioranza “segregante”.
Due cenni storici, tanto per capirci. La politica della Serenissima fu per molti versi grande esperimento di inclusione seppur attraverso la ferrea separazione di fedi, mestieri e nazionalità. Esclusione da un lato, garanzia di identità dall’altro, e poi collaborazione. E laddove le proibizioni ponevano ostacoli insormontabili fu proprio la collaborazione tra ebrei e cristiani a regalare al mondo, ad esempio, un terzo dei libri in ebraico stampati in Europa fino al 1650. Il nostro futuro sempre più farà i conti con flussi migratori, identità complesse, tentazioni neorazziste di costruire ghetti per liberarsi dell’altro e/o come chiusura in se stessi a tutela del proprio Io. E allora, come il vecchio Melchisedech che Rilke racconta volesse abitare nella casa di volta in volta più alta del Ghetto, non ci resta che salire e salire, per cercare di vedere al di là, oltre: «Il vecchio continuava a ergersi fiero nella persona e poi a prostrarsi al suolo. E la folla, in basso, aumentava, e non distoglieva lo sguardo da lui: aveva veduto il mare oppure l’Eterno nella sua gloria?». Oppure la libertà?
Mi sono così riavvicinato a Venezia, la città dei miei quattro nonni e dei miei genitori.
Ho guardato con immensa tenerezza e profonda speranza tre bambini giocare con i loro animali gommosi seduti sotto l’elenco dei deportati diventati cenere, tra i quali un pezzo della mia famiglia. Commosso, ringrazio per tutto questo l’amico Shaul Bassi, che di Beit Venezia è il presidente. Ma anche rav Shalom Mino Bahbout che mi confortò in occasione della sepoltura di mia madre z”l e so che continua la sua preziosa opera di guida spirituale nel segno dell’apertura.
È bello, seppur malinconico, tornare da dove si viene.
Stefano Jesurum, giornalista