La legittimità di Israele
Lo Stato d’Israele compie settant’anni ma, in realtà, ne ha almeno il doppio. La sua età anagrafica, infatti, non corrisponde a quella storica. Senza andare a scomodare le esperienze unitarie precedenti alla diaspora, è sufficiente richiamarsi alla lunga sedimentazione del nuovo Yishuv, l’insediamento ebraico che venne costituendosi con la seconda metà dell’Ottocento, sulla base di una piattaforma politica sempre più chiara e netta. La quale, per intenderci, non era basata solo sul continuo rimando alla necessità di uno Stato degli ebrei ma anche e soprattutto su un progetto di rigenerazione degli ebrei come soggetti sociali. Il nucleo fondamentale del sionismo, infatti, gioca su queste due fondamentali polarità: il passaggio dalle diverse comunità ebraiche diasporiche ad una società ebraica indipendente, attraverso la politicizzazione, intesa come la strada per mezzo della quale garantire il passaggio dall’essere semplice «popolazione» al divenire prima «popolo» e poi «nazione» cosciente di sé; la costituzione di una comunità statale unitaria, secondo quelli che erano i criteri e i modelli che avevano interessato i Risorgimenti nazionali europei e avrebbero coinvolto alcuni paesi mediterranei, africani e mediorientali durante la decolonizzazione. Un primo punto, al riguardo, è proprio la questione, ripetutamente evocata, delle radici storiche dello Stato d’Israele. E con esse, della sua legittimazione. Israele è un prodotto dei processi di progressiva estinzione degli imperi coloniali. Non è un caso se nasca con l’esaurirsi del mandato britannico sul territorio palestinese (un aggettivo che non indica un etnonimo, ossia una preesistente entità nazionale, ma uno spazio amministrativo disegnato a ridosso del declino ottomano e dell’entrata in scena degli inglesi), nel momento stesso in cui Londra misurava la conclusione del suo lunghissimo ciclo di dominio su realtà geografiche tra di loro anche molto diverse, a partire dal subcontinente indiano. La vicenda della nascita dello Stato degli ebrei va messa quindi in rapporto anche con quel periodo intermedio che, tra le due guerre mondiali, crea le premesse per la conclusione di un ciclo storico imperiale e il riaffermarsi di un nazionalismo democratico, alternativo a quello nazifascista, di stampo rigorosamente razziale. Ci vorranno la catastrofe e le immani tragedie del 1939-1945 per dare definitiva sostanza a questo progetto ma, non di meno, il considerarlo come il risultato – in quanto “risarcimento” – dello sterminio della comunità ebraiche è non meno fuorviante (e delegittimante) di tante altre letture distorte. Israele, infatti, sta a pieno titolo dentro il principio, enunciato una prima volta da Woodrow Wilson nel 1919, dell’«autodeterminazione dei popoli». Il popolo israeliano, a sua volta, non è un’estemporanea forzatura della storia ma il risultato del percorso di costruzione di un’identità nazionale. Peraltro, nell’età contemporanea queste identità sono tutte un prodotto storico e non “essenze” preesistenti al fatto stesso di riconoscersi come cittadini di una medesima comunità politica. Il nesso tra l’essere israeliani e costruire Israele è quindi fortissimo. Israele stesso, d’altro canto, non è la pedissequa ripetizione di qualcosa di preesistente. Semmai, nel suo ethos, incorpora molti elementi della tradizione storica, morale, culturale ebraica. Ma non ne esaurisce il pluralismo. La stessa idea di “unione delle dispersioni”, che stava alla base del progetto sionista – ben sapendo inizialmente che le differenze avrebbero prevalso sugli elementi di omogeneità – presupponeva questa consapevolezza. Quando si arrivò al 1948, tuttavia, l’Yishuv aveva già costituito una ramificazione non solo di istituzioni e di spazi ma anche di valori civili che avrebbero dato immediata sostanza allo Stato. Che reagì e resistette alla lunga guerra civile tra il 1946 e il 1948, quando ancora non aveva ancora dichiarato la sua indipendenza, e a quella mossagli dagli eserciti arabi dal 1948 in poi, non per esclusiva virtù militare ma per capacità di resistenza civile. La quale, per inciso, non poteva che derivare da una fortissima coesione interna. Una qualità, quest’ultima, che va costantemente rigenerata (e rimotivata), tanto più se il Paese è il prodotto di continui processi immigratori, con l’ingresso di un grande numero di individui, di famiglie e di gruppi, che modificano continuamente gli assetti interni alla società. La questione dei confini è quindi strategica per Israele poiché rimanda ad una questione di ordine non solo spaziale e geografico ma anche simbolico, richiamando sia il rapporto con i paesi arabi che quello con la composizione della sua collettività nazionale. Avere dei confini, infatti, implica lo stabilire un terreno comune di condivisione. È l’indice della sovranità, dell’imperio della legge, che si rivolge sia a chi è straniero sia a chi è cittadino. I confini “interni”, in sé spesso mutevoli, indicano il patto di cittadinanza che lega permanentemente coloro che lo sottoscrivono, diventando in tale modo «cittadini». Poiché si è tali se si rispettano i legami dettati dalla condivisione delle stesse regole, della lealtà reciproca, dalla cognizione che ci sono vincoli (confini, per l’appunto) che non possono essere valicati senza rischiare di rompere la coesione sociale. La moderna cittadinanza, d’altro canto, è in sé rivoluzionaria poiché spezza le catene delle vecchie dipendenze, delle antiche sudditanze, delle pervicaci subordinazioni. Sostituisce ad esse la libertà come coscienza della reciprocità e della responsabilità, in quanto limite autoimposto. Israele non è il prodotto di una restaurazione ma il risultato di una rigenerazione, quella del Popolo d’Israele che si fa Nazione ebraica. Anche per questo non esaurisce la Diaspora, in quanto nell’ebraismo il rapporto tra comunità politica stanziale e identità in movimento è qualcosa di ineludibile. L’una non assorbe l’altra, semmai alimentandosi reciprocamente. Un altro punto ossessivamente sollevato dai detrattori è quello della cosiddetta “legittimazione internazionale”. Si contesta, in altre parole, un difetto di riconoscimento da parte della comunità internazionale. Fatto che deriverebbe dall’unilateralità del progetto sionista, impostosi sulla volontà della comunità araba locale. La prima risposta da dare è che Stati e nazioni si giustificano da sé, in quanto prodotto storico delle volontà collettive che li hanno generati, all’interno di un campo di rapporti di forza contrapposti. Se così non fosse, si dovrebbe allora dichiarare illegittimi la totalità di essi, Italia compresa. La società araba autoctona, nel territorio della Palestina prima ottomana e poi britannica, non era un soggetto politico unitario. Si sarebbe faticosamente riconosciuta come tale solo in anni a noi molto più vicini. Ma il punto non è neanche questo, poiché Israele,a ben guardare, è uno dei pochissimi Stati al mondo che possa vantare una pluralità di fonti di legittimazione, tali poiché provenienti dai soggetti della comunità internazionale dei propri tempi: dalla Dichiarazione Balfour del 1917 alla Commissione Peel di vent’anni dopo, dalla risoluzione 181 del 1947 ai trattati di pace, laddove sottoscritti. Il rifiuto arabo del 1948, e dei decenni successivi, d’altro canto, non è mai stato rivolto solo contro l’«entità sionista» ma anche contro la stessa idea della fondazione di uno Stato palestinese. Se le cose fossero state disposte diversamente, oggi non ci si confronterebbe ancora con il problema dei profughi. Ma non ci si dovrebbe neanche misurare con la ripetizione di luoghi comuni e di cliché che hanno tutti una medesima radice, ossia il pregiudizio pervicace e ossessivo, la maniacalità di un rigetto che è segnato dall’ombra di sempre, quella dell’antisemitismo che assume i panni, più “edulcorati” e accettabili, dell’antisionismo militante. La parola «sionista», nel linguaggio corrente, ha sostituito il termine spregiativo di «giudeo», andandone tuttavia ad immediato ricalco. Si continua a chiedere ad Israele di legittimarsi ma mai nessuno parrebbe domandarsi quanto abbia Israele da chiedere ai suoi interlocutori su quale sia il loro grado di legittimazione. Soprattutto quando ripetono, come dei pappagalli, quella che i francesi chiamano langue de bois e gli inglesi Wooden Language, il discorso per stereotipi, che maschera l’essenza dei problemi e ne occulta la sostanza, a volte capovolgendo l’ordine delle responsabilità e coloro che le portano con se stessi.
Claudio Vercelli