Ferrara – La Memoria dei fratelli Pesaro

Casa Pesaro“A leggere le cose sui libri, resta un senso di distacco. Invece così, ascoltando quei fatti direttamente da chi li ha vissuti, si percepisce l’emozione, si capisce meglio che cosa è stato”.
È condensato in questa frase, pronunciata ieri mattina, di slancio, da uno studente ferrarese, il significato del progetto “Zikaron Ba Salon”, con cui l’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, attraverso la Commissione Antisemitismo e Memoria, apre alle scuole le case dei testimoni e dei sopravvissuti alla Shoah. Come ha spiegato Sira Fatucci, ideatrice e responsabile di “La Memoria in salotto” (con la collaborazione di Alessandra Sabatello), “questo format israeliano risale al 2010 e ora lo abbiamo importato in Italia. La narrazione di vicende familiari e personali dalla voce instancabile di chi le ha vissute, in ambienti intimi e raccolti, punta a trasmettere in modo vivido ed efficace la memoria ai giovani e ad avvicinarli alla storia. Purtroppo sono ormai le ultime testimonianze che ci restano: un motivo in più per portare avanti questo programma”.
Nella tappa di Ferrara, organizzata in collaborazione con l’Istituto di Storia Contemporanea, “Zikaron Ba Salon” si è svolto contemporaneamente a casa Pesaro, dove i fratelli Renata e Andrea hanno condiviso i propri ricordi con la IV G del Liceo Scientifico “Roiti”, nel soggiorno di Marcella Ravenna, dove si è accomodata la V G dell’Istituto “Orio Vergani”, e in quello di Jose Romano Levy Bonfiglioli, che ha ospitato la III A e la III H della Scuola Media “Dante Alighieri”.
Oggi vi riportiamo il contributo dei Pesaro, nelle cui parole si intrecciano le sorti dei parenti deportati e mai più tornati da Auschwitz.

“Nel ’38 nostro padre lavorava a Carrara, nella Ferrovia Marmifera” – inizia Renata, sulla terrazza di quella casa di Via Borgoleoni che ispirò a Giorgio Bassani il Giardino dei Finzi-Contini. “Abbiamo un carteggio del Direttore della Ferrovia, che chiedeva alle autorità di poter tenere questo ingegner Pesaro, visto che lavorava bene. Ma le leggi razziali non lasciavano più scampo e fummo costretti a trasferirci a Vercelli, dove papà aveva trovato impiego in un pastificio. Lì restammo fino a un giorno del ’43, quando nostra mamma, affacciandosi alla finestra, vide arrivare nel viale sotto casa delle camionette aperte, con i soldati tedeschi – tre da un lato e tre dall’altro – che tenevano i fucili tra le gambe. Telefonò a papà, che riuscì a trovare una macchina e ci fece scappre immediatamente in montagna, in Val Sesia. La sera stessa, le spie dell’OVRA entrarono in casa nostra, grazie alla soffiata di un delatore, il vicino del piano di sotto. Restammo in montagna fino a dicembre, in una frazioncina, presso una famiglia che ci aveva affittato il piano superiore della propria baita. Poi fu emanato un decreto secondo cui chi fosse stato scoperto ad aiutare gli ebrei sarebbe stato passato per le armi. Allora i miei decisero di andare in Svizzera. Prevedendo ciò che probabilmente avremmo dovuto fare, nostro padre aveva allenato me e Andrea a camminare nella neve. Arrivammo in treno a Como, dove a mezzanotte, in un’osteria fumosa coi quadri dell’Ottocento alle pareti, avevamo appuntamento con dei contrabbandieri. A un certo punto, un uomo entrò nel locale e ci avvisò che le persone che stavamo aspettando erano state imprigionate. Non so come – immagino sganciando altri soldi –, ma riuscimmo a trovarne altri due, che ci accompagnarono in Svizzera. Per fortuna era una notte di luna, anche se fredda da morire. Io avevo le suole Vibram, di gomma, mentre mio fratello portava gli scarponi chiodati. I contrabbandieri gli dissero che facevano troppo rumore sui sassi, così gli fecero indossare delle ciocie di panno. Eravamo quasi arrivati, quando ci fermammo in una capanna di pastori, in attesa che passasse la ronda. Andrea aveva le scarpe zuppe e ci scaldammo al fuoco. Poi scattò l’allarme, perché la ronda stava arrivando, e ci fecero nascondere in una stanza sul retro. Ricordo mio padre seduto su una brandina con mio fratello in braccio che continuava a tossire e lui che gli premeva il fazzoletto sulla bocca. Riuscimmo ad arrivare al confine, dove c’era una rete con in cima tanti campanelli, che avrebbero suonato se qualcuno avesse cercato di manometterla. Ma i contrabbandieri avevano fatto un buco e così potemmo passare. Da lì abbiamo fatto una discesa ripidissima: ho ancora davanti agli occhi gli scivoloni di mia madre, con noi bambini che ridevamo e i nostri genitori che ci intimavano il silenzio. Alla fine della mulattiera c’erano i soldati svizzeri ad accoglierci. Ci portarono a Lugano in un Grand Hotel, dato che gli alberghi erano vuoti, e restammo lì circa una settimana”.
“Arrivammo in un campo di raccolta gestito dall’Italia – prosegue Andrea, attuale Presidente della Comunità Ebraica di Ferrara, ma a quel tempo un bambino di sei anni –. Erano luoghi di transito nei quali si veniva riconosciuti e poi indirizzati a fornire servizi utili agli svizzeri. Mio padre fu mandato a fare lo sterratore e a sradicare le radici degli alberi in montagna, nella Svizzera tedesca, mentre nostra madre fu assegnata come donna di servizio a una famiglia borghese di Zurigo, proprietaria dell’industria del formaggino Tigre”.
“Una brutta sera – riprende Renata –, la mamma venne al campo piangendo e disse a me e a mio fratello che la mattina dopo saremmo dovuti partire. Fummo affidati a un soldato russo, che ci caricò su un vagone, non disse una parola per tutto il viaggio e ci portò a Losanna. Io capitai nella famiglia di un ex emigrato italiano. Sua moglie continuava a ripetermi – a me che avevo otto anni! – che era tutta colpa di noi ebrei, perché avevamo crocifisso Gesù. Dopo un po’ mi dissero che la signora era troppo anziana per tenermi e mi spedirono da un’altra parte”.
Ad Andrea andò meglio: “Mi prese con sé una signora che abitava in una bellissima villetta e che mi ha trattato come un figlio. Per me e per Renata venne scelta Losanna anche perché lì vivevano dei giovani ebrei ferraresi, che avevano dovuto abbandonare gli studi nel ’38 e si erano trasferiti per poter proseguire l’università. Alcuni cugini ci portavano a fare delle passeggiate e in piscina, e tra gli amici conosciuti allora ricordo Lele Luzzati. Poi la mia padrona di casa ebbe dei problemi di salute e andai a stare da sua sorella a Sainte-Croix, un paesino di montagna delizioso, noto per la produzione delle migliori cineprese al mondo, le Paillard. Ma questa signora rimase incinta e passai a una terza famiglia, a Neuchâtel, sul lago, fino al ritorno in Italia”.
Più travagliate le sorti di Renata: “Finii in un paesino vicino a Losanna, da una donna che, coi risparmi del marito operaio, aveva comprato una delle primissime lavatrici. Andava a prendere i bucati sporchi, li lavava, li stirava e il sabato mi portava con lei a riconsegnarli nelle case, su un carrettino che tiravamo a turno. A me piaceva, anche perché le sue clienti mi davano sempre qualche soldino. Era una signora molto buona, un’orfana ed era stata in collegio, quindi con me fu particolarmente comprensiva. Il guaio era che aveva deciso di dimostrare a tutti che mi trattava bene e così mi mise letteralmente all’ingrasso: fette di fegato quasi crudo, tanto latte e niente acqua! La notte andavo in bagno di nascosto per berne un po’… A un certo punto questa coppia, non giovanissima, fece domanda per adottare un’orfanella e, quando la bambina arrivò, io diventai di troppo. La mia maestra, che era di una dolcezza incredibile, un giorno mi vide piangere e io le spiegai che stavo per cambiare ancora famiglia e scuola. Così mi propose di trasferirmi da lei, dove sarei rimasta fino alla fine della guerra. Mi diceva sempre: “Io sono la tua mamma di sintetico, non di seta”, ma è stata davvero materna”.
“Per noi quei giorni sono stati duri, ma solamente duri – precisa Andrea Pesaro –, non tragici come per tanti altri. La storia dei miei nonni materni, ad esempio, non è a lieto fine, perché è andata nel peggiore dei modi possibili. Silvio Magrini e Albertina Bassani erano i proprietari di questa casa, che per noi rappresenta un legame fortissimo con la famiglia e con la città. Dal 1930 mio nonno era Presidente della Comunità Ebraica di Ferrara. Nel ’43 fu ricoverato all’ospedale Sant’Anna: aveva 62 anni e, per quei tempi, era piuttosto anziano e soprattutto di costituzione molto fragile. Professore di Fisica, era stato assistente di Augusto Righi a Bologna, nel Dipartimento di Elettromagnetismo, ma poi dovette abbandonare l’università e tornare qui per curare i beni del padre, che nel frattempo era mancato. L’11 novembre i fascisti lo catturarono mentre era al Sant’Anna, lo portarono nella sinagoga di Via Mazzini, insieme agli altri ebrei vittime di quel rastrellamento, e dopo nel campo di raccolta di Fossoli. Da qui, ai primi di febbraio del 1944, fu trasportato ad Auschwitz dove, non essendo adatto ai lavori pesanti, trovò la morte appena arrivato. Sua moglie Albertina era in campagna con la vecchia madre, che non stava bene. All’inizio di marzo venne a sapere che il marito era in Polonia e scrisse alla figlia una lettera piena di angoscia, perché non riusciva a decidere se restare con la madre malata oppure cercare di raggiungere il marito. Ma le sue incertezze furono presto risolte da altri: appena giunta a Ferrara, fu presa e condotta a Fossoli, destinazione Auschwitz. E là fu subito eliminata.
Queste informazioni le abbiamo ricostruite quando mia madre non c’era già più, da documenti che ci sono stati consegnati o che abbiamo trovato in casa. Come un archivio storico di famiglia e tre fascicoli di cartoncino dattiloscritti con correzioni, aggiunte, foglietti volanti, che raccontano la storia della comunità di Ferrara dalle origini, cioè dal 1227 circa, fino all’8 settembre del ’43, quando la narrazione si interrompe. I nostri genitori non ci hanno mai parlato densamente di ciò che era successo e questo fenomeno si è ripetuto in quasi tutte le famiglie ebraiche. Ancora oggi non conosco il perché, ma posso intuirlo: probabilmente volevano cancellare dalla memoria un periodo fortemente negativo della loro vita e temevano che noi figli potessimo esserne turbati più di quanto non fossimo già. Invece, ricordare e trasmettere quella memoria è un dovere, una scuola di vita”.

Daniela Modonesi