Il Tempio di Gerusalemme

lucreziNon so quanto l’esatta coincidenza temporale sia stata precisamente voluta (la data ha dovuto subire qualche piccolo spostamento), ma certo è stato per me motivo di particolare gioia e onore il fatto che proprio lo scorso lunedì 14 maggio – giorno, com’è noto, in cui è caduto il 70° anniversario dell’Indipendenza di Israele – sia stato invitato a tenere, presso la Comunità Ebraica di Napoli (dalla Comunità stessa e dalla sezione napoletana dell’Amicizia Ebraico Cristiana), insieme al Collega e amico carissimo Giancarlo Rinaldi, una conferenza sul tema “Il Tempio tra storia, archeologia e teologia”. Grazie alle profonde e affascinanti considerazioni di Rinaldi, e ai brillanti commenti del qualificatissimo uditorio, è stato per me un incontro di particolare rilievo, dal quale ho molto imparato.
Da parte mia, mi sono limitato a svolgere qualche semplice considerazione sulle diverse prospettive da cui la complessa realtà del Tempio di Gerusalemme può essere compresa e ricostruita, sintetizzate nelle tre parole opportunamente inserite nel titolo della conversazione: storia, archeologia, teologia. Che rapporto si può instaurare tra queste tre differenti modalità di approccio alla conoscenza di un’istituzione che, evidentemente, è da tutte e tre ugualmente presa in considerazione? Esiste forse una strada privilegiata, o una scala gerarchica tra le tre differenti vie? Un religioso, per accedere alla comprensione dell’Har ha-Bait, deve necessariamente privilegiare il testo delle Sacre Scritture, filtrato attraverso la plurisecolare interpretazione rabbinica (o, magari, ecclesiastica)? Un laico, che voglia scegliere un approccio scientifico e razionale, nel leggere le fonti antiche che ci narrano della storia del Primo e del Secondo Tempio, dovrà restare necessariamente immune dalle suggestioni provenienti dalla tradizione religiosa (che, a sua volta, proprio da tali fonti trae alimento)? E in che modo le scoperte archeologiche (che, con la fredda oggettività dei reperti monumentali, arrivati direttamente fino a noi) sono chiamate – attraverso le loro presunte certezze – a confermare, o a contraddire, le opinabili ‘verità’ della storia e della religione?
Tutte questioni, evidentemente, aperte e articolate, a cui si possono dare le più svariate risposte. Da parte mia, ho ritenuto opportuno sottolineare quello che mi sembra un importante punto di partenza, da tenere sempre presente. La conoscenza – qualsiasi forma di conoscenza – è sempre un fenomeno complesso, una costruzione edificata da diversi architetti, un lago in cui confluiscono svariati fiumi. La religione ha una sua indipendenza dalla storiografia, ma non la può ignorare, così come la conoscenza storica non può prescindere dal significato che le sue acquisizioni hanno determinato suo piano ideologico, dalle credenze degli uomini chiamati a leggere e comprendere la storia. E il compito dell’archeologia sarebbe del tutto inutile, se le sue evidenze non riguardassero fatti oggetto di umana interpretazione. Soprattutto, la conoscenza – storica, archeologica, teologica – è sempre un fenomeno “in progress”, che non conosce mai una parola definitiva: l’opera degli architetti non è mai completa, l’edificio è sempre in costruzione. E, come disse Huizinga, la storia è “la scienza inesatta per eccellenza”. Ed è sempre un fenomeno attivo, partecipativo, che non ammette supina passività. Chiunque si accosti alla realtà del Tempio di Salomone – sui banchi di scuola, in un’aula universitaria, davanti al Kotel, pregando in una chiesa o una sinagoga – sarà sempre chiamato, in qualche misura, non solo a ‘imparare’ ciò che è stato detto – chi sa dove, chi sa quando, chi sa da chi, chi sa perché -, ma anche a ‘creare’ la sua verità: come notò Borges (commentando la definizione di Cervantes della storia come “madre della verità”), la conoscenza storica non rappresenta una “indagine della realtà, ma la sua origine. La verità storica non è ciò che avvenne ma ciò che noi giudichiamo che avvenne”.
Conoscere la realtà del Tempio è una strada lunga e affascinante, che andrà, come dice Beatrice della fama di Virgilio, “quanto il mondo lontana”. A chi voglia intraprenderla, non serve tanto cultura, e neanche fede, o intelligenza, ma, soprattutto, cuore. Quanto ai miserabili, che tanto si interessano al Tempio, per dimostrare che non sarebbe mai esistito, non meritano commento, anche quando le loro risoluzioni sono approvate, a larga maggioranza, in solenni palazzi infestati da odio, ignoranza e miseria morale. Palazzi che, essi sì, “non esistono”. “Non ti curar di lor, ma guarda e passa”.

Francesco Lucrezi

(16 maggio 2018)