La rinuncia del potere

valentina di palmaScrive Rav Sacks che l’ebraismo è contro intuitivo, tanto nella sua insistenza sulla rinuncia del potere (Moshe, dopo tanto aver fatto per il popolo, sa ed accetta di non condurlo fino alla fine, all’ingresso nella terra), quanto nell’affermare che la vera libertà è essere lontani dall’odio, riuscire ad aiutare anche il nemico, il suo asino in difficoltà (Shemot 23:5), e questo è l’unico modo per sopravvivere, guardare avanti e costruirsi un futuro (Jonathan Sacks, Non nel nome di Dio. Confrontarsi con la violenza religiosa, Giuntina 2017, pp. 251-264).
Si tratta della sola via per non correre il rischio di voltarsi indietro ed essere trasformati in una statua di sale come la moglie di Lot, l’unica possibilità per liberarsi dall’Egitto dentro di noi e non essere schiavi del rancore e della vendetta.
La sfida più grande consiste forse nel far convivere questo esercizio, che non è mai un conseguimento definitivo ma una ricerca, con il ricordo dei mali subiti nel passato. Non si tratta infatti di pietismo consolatorio in un futuro post mortem, quando in un messianico mondo migliore giustizia sarà sicuramente fatta, ma nell’accettare, qui ed oggi, che pur essendo stati vessati dal nostro nemico (zachor, ricorda, e ricordiamo tutti i giorni che il Signore ci ha fatti uscire da Mitzraim dove eravamo schiavi e dove è stato scientemente deciso e messo in atto il primo genocidio, assassinando i figli maschi degli ebrei alla nascita), noi vogliamo guardare avanti, intraprendere la strada della convivenza.
Possiamo dunque avere la forza di serbare questa memoria, e probabilmente l’impossibilità di un perdono sicuramente per quanto fatto agli altri, ma forse anche per quanto perpetrato contro di noi, come afferma Simon Wiesenthal (Il girasole. I limiti del perdono, Garzanti 2000 – “forse ci sarà anche chi non ti perdonerà di non aver perdonato…”, p. 74) accanto alla ricerca di convivenza con il nemico, al tentativo di non odiarlo, di non restituire il male ricevuto ma di provare a trasformarlo in accettazione dell’altro (“perché anche tu fosti straniero nella sua terra”, Devarim 23:7).
Solo così potremo non essere più schiavi di noi stessi, delle viscosità di un passato di afflizione e dolore, della nostra vittimizzazione che ci impedirebbe di essere soggetti attivi del nostro presente e di una visione del futuro, per cristallizzarci in un ruolo passivo e fisso.
Perché, in fondo, noi non siamo la nostra malattia (nonostante purtroppo la lingua conservi dei vizi mentali, in base ai quali a ragione dico ‘tizio ha la febbre’, ma anche erroneamente ‘caio è autistico’, identificando il soggetto con ciò di cui soffre), e possiamo provare ad essere la nostra cura.

Sara Valentina Di Palma

(17 maggio 2018)