Israele

torino vercelliParlare d’Israele, ovvero spiegarne la storia, il profilo sociale, gli indirizzi di politica assunti nel corso del tempo ma anche le relazioni con gli scomodi vicini e il groviglio di questioni che è conosciuto come «conflitto israelo-palestinese» (ma anche arabo-israeliano) è cosa particolarmente impegnativa con i tempi che corrono. Il rischio di incorrere in anatemi o scomuniche da parte del pubblico, di scontentare gli uni ma, soprattutto, di farne arrabbiare altri, è piuttosto diffuso. Non che si cerchi l’applauso ad ogni costo, e neanche l’assenso, men che meno quello unanimistico, ma il problema di una fazionalizzazione a prescindere, che trasforma certi astanti in ultras dell’auto-identificazione (chiamati in causa, ognuno d’essi esprimerà la sua più fervida indignazione verso qualcosa o qualcuno, rivelando in tale modo di avere in tasca la giusta “idea” su quanto è avvenuto e avviene), rende pressoché impossibile, almeno in certe situazioni, non un dialogo ma anche solo un qualche tentativo di comunicazione. Gli automatismi che entrano in gioco sembrano essere quelli dei proverbiali cani di Ivan Pavlov, l’etologo e fisiologo russo che alla fine dell’Ottocento postulò il «riflesso condizionato». In tali condizioni, l’orizzonte critico si trasforma in agire polemico, mentre alla comprensione delle diverse variabili che possono entrare in gioco si sostituisce una cupa visione, rigidamente dicotomica: tutto il male da una parte e, in immediato riflesso, il bene dall’altra. Quanto un tale modo di fare possa costituire una forma di integralismo laico, della ragione che si trasforma in esercizio di prevaricazione, è chiaro a chi ne debba subire gli effetti ma non certo a chi li fa subire. Poiché in tali tempi difficili o comunque problematici (ma quando mai non lo sono stati?) si viene spesso tirati “per la giacchetta”, poiché i furori di chi si crede investito di una missione da compiere (senza peraltro vedere messo nulla in discussione del suo) si riversano intorno come torrenti di bile, poiché le esecrazioni e i sentimenti Alti e Nobili (con le maiuscole) si riproducono in automatico, poiché appelli e contrappelli volano come foglie al vento, poiché le tifoserie urlano dagli spalti come se si fosse dinanzi al carosello dei gladiatori, viene in mente una poesia di Eugenio Montale, «Dora Markus», la cui complessa gestazione richiese, per essere infine conclusa, ben dieci anni. Ci si scuserà per la metrica qualora dovesse risultare imperfetta, trattandosi di una lirica composta di versi liberi, con diversi endecasillabi e settenari, così come di novenari e ottonari nella seconda parte. Non c’è nulla da spiegare perché ciò che conta in un testo di tale genere è lo sforzo che ogni lettore può e deve fare nel comprendere e, soprattutto, nell’immedesimarsi.
I
Fu dove il ponte di legno/ mette a porto Corsini sul mare/ alto/ e rari uomini,/ quasi immoti, affondano/ o salpano le reti. Con un segno/ della mano additavi/ all’altra sponda/ invisibile la tua patria vera./ Poi seguimmo il canale/ fino alla darsena/ della città, lucida di fuliggine,/nella bassura dove s’affondava/ una primavera inerte,/senza memoria./E qui dove un’antica vita/ si screzia in una dolce/ ansietà d’Oriente,/le tue parole iridavano/come le scaglie/ della triglia moribonda.
La tua irrequietudine/ mi fa pensare/ agli uccelli di passo/ che urtano ai fari/ nelle sere tempestose:/ è una tempesta anche/ la tua dolcezza,/ turbina e non appare,/
e i suoi riposi sono anche più rari./ Non so come stremata tu resisti/ in questo lago/
d’indifferenza ch’è il/ tuo cuore; forse/ ti salva un amuleto che tu tieni/ vicino alla matita delle labbra,/ al piumino, alla lima:/ un topo bianco,/ d’avorio; e così esisti!
II
Ormai nella tua Carinzia/ di mirti fioriti e di stagni,/ china sul bordo sorvegli/ la carpa che timida abbocca/ o segui sui tigli, tra gl’irti/pinnacoli le accensioni/ del vespro e nell’acque un avvampo/ di tende da scali e pensioni./ La sera che si protende/ sull’umida conca non porta/ col palpito dei motori/ che gemiti d’oche e un interno/ di nivee maioliche dice/ allo specchio annerito che ti vide/ diversa una storia di errori/ imperturbati e la incide/ dove la spugna non giunge./ La tua leggenda, Dora!/
Ma è scritta già in quegli sguardi/ di uomini che hanno fedine/ altere e deboli in grandi/ ritratti d’oro e ritorna/ ad ogni accordo che esprime/ l’armonica guasta nell’ora/ che abbuia, sempre più tardi./ È scritta là. Il sempreverde/ alloro per la cucina/ resiste, la voce non muta,/ Ravenna è lontana, distilla/ veleno una fede feroce./ Che vuole da te? Non si cede/ voce, leggenda o destino…/ Ma è tardi, sempre più tardi.

Claudio Vercelli

(27 maggio 2018)