PROTAGONISTI “Nella vita scegliete buoni Maestri”

gioele dixGioele Dix / QUANDO TUTTO QUESTO SARÀ FINITO / Mondadori

È un giorno qualunque a Mondovì, un giovedì di sole e di montagne ancora innevate. Quando arrivo i negozi sono in chiusura e i dehor dei locali in centro sono già animati dalle voci e dai calici di vino. Stasera al teatro Baretti, appena dietro la casa di Marco Levi, simbolo della storia ebraica monregalese, va in scena Vorrei essere figlio di un uomo felice, di e con Gioele Dix. Ho appuntamento con lui per un’intervista, poco prima dello spettacolo, nella calma del teatro ancora vuoto. Gioele Dix scende dal palco, mi stringe la mano e mi chiede sorridendo: “Allora, mi dica, di cosa si occupa lei?”. E di fronte all’antitesi del divo, che invece di rovesciare fiumi di parole su di sé, crea una relazione squisitamente umana, rispondo in modo un po’ frammentario, quasi non mi ricordassi manco bene io di cosa mi occupo. E di nuovo, lui sorride. Ho la sensazione che potremmo chiacchierare a lungo, ma il tempo è poco e così vado dritta al punto, facendo la classica domanda da un milione di dollari.

Cosa significa per lei, essere ebreo?

L’ebraismo non lo scegli, ti ci ritrovi dentro e solo dopo ti chiedi se ne è valsa la pena. Sento l’importanza del forte senso di appartenenza, di identità, tanto più importante in una realtà in cui le identità si vanno smembrando o si radicalizzano in modi poco interessanti, poco profondi. E se l’appartenenza è data, è pur vero che occorre però darle un senso.

L’appartenenza è data in eredità, la declinazione dell’identità è scelta individuale. Essere ebrei può significare fede e halacha, ma anche assimilazione, due volti della società ebraica con sfaccettature e variabili storiche e culturali pressoché infinite. Lei dove si colloca?

gioele dixCredo che l’identità sia prevalentemente religiosa; non sono osservante, ma sappiamo anche che nell’ebraismo i confini sono molto discutibili. Ho sempre avuto la consapevolezza di far parte di un disegno e la presenza di Dio – simbolicamente reale – da bambino diventava, come racconto nello spettacolo, una paura. Il nonno diceva ‘ricordati che Dio ti guarda sempre’ e io ero molto preoccupato di questo Signore che mi osservava. Personalmente penso siano importanti gli osservanti che permettono la sopravvivenza e il consolidamento delle tradizioni (la teoria dei “recinti” è estrema ma ha permesso la conservazione dell’identità). Per dirla con una battuta: non ci sono più notizie di hittiti ed Etruschi e noi siamo ancora qui. Al tempo stesso però ritengo sia importante anche la storia dell’assimilazione, in quanto strumento di confronto e capacità di dialogo. Entrambe le manifestazioni sono utili alla crescita del popolo.

Lo spettacolo di stasera parla del rapporto padre – figlio a partire da un testo classico, l’Odissea, ma questo è un tema ricorrente anche nella letteratura ebraica di ogni tempo, dalla Bibbia in poi.
Semplice topos letterario o anche spazio dell’esistenza ebraica?

Credo conti molto l’imprinting paterno ai fini di definire l’identità ebraica; è importante il ruolo materno, ma ritengo vitale il legame indissolubile nonno – padre – figlio. Il momento più significativo, per me, è quello della beracha di Kippur, è lì che si forma una catena con diversi anelli e ciascuno di noi sente di farne parte. Credo sia il momento simbolico più forte. Ripenso a quand’ero bambino e mi rivedo, sotto il talleth, così piccolo… poi sono cresciuto, ho superato in altezza mio padre e il nonno che con il passare degli anni ha cominciato a essere più piccolo e curvo. È stato un grande dolore il primo kippur senza il nonno, ma a quel punto c’era mio figlio e lì ho davvero sentito forte il senso della continuità”.

Le sue parole mi riportano alla mente quelle di Paolo De Benedetti: “la ‘patria’ di Israele è stata solo alcune volte una terra, ma sempre una catena di padri e di figli” e l’immagine di Martin Buber, che nel suo monumentale lavoro dedicato ai racconti dei chassidim, si vedeva “anello nella catena dei narratori”. Leggendo la sua biografia, trovo un altro punto di contatto forte con la tradizione ebraica: la figura del Maestro.

Ho spesso sottolineato l’importanza dei Maestri, anche negli spettacoli, in particolar modo in Nascosto dove c’è più luce, dove immaginavo di restare incastrato in un sogno e incontrare il mio angelo custode per fare una specie di bilancio, in attesa di sapere se sarei stato destinato all’alto o al basso. Per molto tempo ho riflettuto sull’aspetto formativo ed edificante dei Maestri, che vanno cercati e scelti; capita di incontrare sulla propria strada persone maieutiche; talvolta lo sono involontariamente, anzi, i migliori sono quelli che non si pongono come Maestri. Sulla mia strada ho incontrato Maestri illuminanti, nel mio mestiere almeno due, a cui ho rubato, perché al maestro bisogna anche rubare. I Maestri sono soprattutto quelli che non chiacchierano ma ti lasciano un segno per quel che fanno e per come sono.

I suoi spettacoli fanno ridere e commuovere e mi hanno sempre colpita la sua capacità di analizzare i testi, i riferimenti colti e lo spirito di osservazione da antropologo, ma soprattutto quel sano buon senso che fa capolino qua e là creando uno spazio oserei dire rassicurante per lo spettatore.

L’inevitabile trascorrere del tempo porta sì i capelli bianchi, ma regala consapevolezza. Si diventa saggi, l’esperienza permette di fare tesoro, di capire qualcosa in più ma anche di imparare a porsi interrogativi. I dubbi fanno crescere, ne sono profondamente convinto. D’altronde appartengo a un popolo che si preoccupa più delle domande che delle risposte.

Il Midrash Tanhuma dice che ogni essere umano ha tre nomi: quello dato dai genitori alla nascita, quello con cui siamo conosciuti e quello che ci guadagniamo nella vita. I suoi genitori hanno scelto per lei il nome di David, il re, ma noi la conosciamo con il nome di Gioele, il profeta, un passaggio molto importante che rende ovviamente conto delle sue scelte. Chissà quale sarà il suo terzo nome?

Beh, la mia aspirazione sarebbe Salomone, un personaggio che ha un po’ rovesciato l’idea del saggio e santo che vive di sottrazione e privazione; Salomone si è davvero goduto la vita. Quel che più mi colpisce in ogni caso, è la sua prontezza di riflessi; pensiamo all’episodio delle due prostitute, è proprio esempio del classico colpo di genio ma è anche sintomatico della sua capacità di introspezione, di leggere dentro le anime.

È una bella scelta. Il nome Salomone peraltro contiene la parola shalom – pace e rimanda anche a shlemut – perfezione e davvero non è male per raccontare una vita bella e piena.

In effetti sì. E ora che ci penso Salomone potrebbe essere anche Sal, ma forse sa un po’ di saxofonista americano…

“Mhm… già”, rispondo io, “e forse Sal potrebbe essere il figlio di un ebreo ucraino sbarcato a Ellis Island con una valigia di cartone che sa di brodo di pollo, colma di preghiere in ebraico, canzoni in yiddish e sogni di una vita migliore…”. E per un istante, come in un fotogramma, vedo davanti a me Sal e nella mia mente risuonano le note di Oyfn Pripetshik. Ma è solo un istante. Siamo di nuovo al teatro Baretti di Mondovì e Gioele Dix deve salire sul palco.

Classe 1956, David Ottolenghi, in arte Gioele Dix, racconta di aver coltivato sin da bambino la passione per il teatro. “A partire dall’età di sette anni, mi misi in testa che da grande avrei fatto l’attore. – racconta – Questo me lo ricordo bene anch’io. Capivo di esserci portato, perché sapevo spesso cavarmi d’impaccio recitando. Il mio cavallo di battaglia era la finta emicrania per saltare gli allenamenti di nuoto (ho fatto nuoto per otto anni e il mio allenatore mi massacrava per il mio scarso rendimento nella rana, che cavolo gli importasse non so, nelle gare di dorso prendevo le medaglie, ma lui niente, sei sotto i tempi! devi migliorare la rana!”). Intraprende la carriera di solista comico, si esibisce al Derby Club e allo Zelig, storici cabaret milanesi. Il nome d’arte Gioele Dix nasce nel 1987 dopo un provino allo Zelig con Gino e Michele e Giancarlo Bozzo;”Fin da ragazzino sognavo un nome con la x, che non fosse Craxi: Tom Mix, Otto Dix. Gioele è il nome di un profeta della Bibbia, omaggio alla mia identità ebraica”.

Maria Teresa Milano, Pagine Ebraiche, maggio 2018


1938, quanto tutto questo sarà finito

L’uomo seduto ai tavolini all’aperto del bar di fronte alla ferrovia guarda i binari e pensa a quando, proprio in quel punto, riuscì a intercettarla e a bloccarla. In molti videro la scena quel giorno. La donna voleva gettarsi sotto al treno. L’uomo, che era un ragazzo allora, si mise in ginocchio e la supplicò di desistere. Anche lui era disperato, ma mai quanto lei, perché non si può misurare il dolore di una madre che ha appena perso il suo bambino. Fu bravo a trovare le parole giuste e lei si lasciò avvicinare. Si accasciò fra le sue braccia e tornarono a casa. Quell’uomo si chiama Vittorio e mi ha raccontato la sua storia. All’inizio di settembre del 1938 io ero un bambino di dieci anni che si preparava a entrare in prima media. Ero elettrizzato, perché mi piaceva la scuola, ma anche preoccupato, perché tutti dicevano che le medie erano difficili. Le medie al Carducci di Milano, poi. «Non ce la farai mai, Vittorio, vedrai che ti cacceranno via.» Questo me lo diceva il mio amico Lele Pardo del terzo piano. Parlava così soltanto per invidia, perché l’avevano mandato a scuola un anno dopo di me e quindi gli toccava andare ancora alle elementari in piazzale Bacone. Ma una sera mio padre tornò a casa scuro in volto, scagliò sul tavolo il “Corriere della Sera” che aveva in mano e si rifugiò in camera da letto a parlare fitto fitto con mia madre. Malgrado le voci fossero attutite dalla porta chiusa, capii che stavano litigando, i loro toni erano concitati e le urla appena compresse per cercare di non allarmarmi. Una discussione accesa fra la tiepida simpatizzante socialista e il fin troppo caldo simpatizzante della destra estrema. Sì, perché questa è la verità: mio padre era fascista, e non certo per convenienza o per conformismo. Va detto a suo merito, ammesso che fosse un merito, che ci credeva veramente. Era addirittura un fascista della prima ora, un cosiddetto “antemarcia”, ossia faceva parte di quella ristretta cerchia di fedeli ed entusiasti sostenitori di Mussolini che lo seguivano sin da prima della marcia su Roma. Gli piacevano le sue idee, il suo linguaggio, e non ne faceva mistero. Forse avrebbe avuto qualcosa da ridire sui metodi degli squadristi, più che altro perché in fondo era un uomo buono e pacifico, eppure prevaleva in lui l’ammirazione per il duce. Ne era rimasto affascinato ai tempi in cui era un giovane ufficiale dell’esercito italiano in trasferta a Parigi e non aveva più cambiato idea. Ne condivideva gli ideali e i valori: la Patria, l’Onore, l’Ordine. Chissà come doveva sentirsi quella sera dopo aver avuto conferma dal giornale che il suo amatissimo Capo del Governo aveva permesso che il Parlamento approvasse una legge, con tanto di controfirma del Re in persona, che declassava gli italiani di razza ebraica, e dunque anche lui, uno dei suoi fedelissimi, a cittadini di serie B. Mio padre non era il solo a sentirsi caduto in trappola ed è certo che in quella calda serata di inizio settembre in molte case di Milano, Roma, Trieste, Livorno, Napoli si stesse consumando lo stesso nostro dramma: un marito, ebreo fascista tradito dal suo Capo, che tenta l’ultima disperata autodifesa, e una moglie che gli inveisce contro e non gli perdona la complicità con l’orrore. Io facevo la spola fra il corridoio e la culla piazzata in salotto, dove il mio fratellino appena nato dormiva indifferente a tanto trambusto. Finalmente uscirono dalla stanza e mia madre si mise nervosamente ad apparecchiare la tavola per la cena. Anche mio padre le diede una mano con posate e bicchieri, fatto assolutamente eccezionale. Forse cercava di stemperare la tensione, provando a farsi perdonare per quella insana passione politica diventata ormai irragionevole. Cenammo in silenzio, poi mio padre mi diede l’annuncio. «Credo che non ti iscriveremo al Carducci. » «Perché?» «Perché non possiamo.» «E perché?» Non ebbi alcuna risposta, né da lui, né tantomeno da mia madre. Quell’impotente sordità divenne un’abitudine. Ogni volta che facevo domande ai miei genitori su ciò che stava accadendo, loro semplicemente non rispondevano. Oggi li capisco: non sapevano come spiegare. E così andò a finire che, dopo parecchi tentativi a vuoto, io non chiesi più nulla. Fra noi si creò una sorta di patto del silenzio che – a pensarci bene – è rimasto immutato codice di famiglia per molti anni, anche dopo la fine della guerra. Constatazione dei fatti, ma mai una parola sulle ragioni. Inutile dire che per me, in quel momento, la conseguenza più grave delle leggi razziali fu di dover rinunciare alla scuola media Carducci, dando una soddisfazione inattesa al mio amico Lele Pardo del terzo piano. Ero certo che mi avrebbe irriso, invece il suo comportamento fu particolarmente affettuoso. Forse i suoi genitori gli avevano spiegato qualcosa, beato lui. Sta di fatto che non fece mai cenno alla mia mancata iscrizione.

(Gioele Dix, Quando tutto questo sarà finito – Storia della mia famiglia perseguitata dalle leggi razziali. Mondadori)