“L’identità del popolo ebraico
racchiusa nelle pagine scritte

In occasione della nona edizione della Festa del Libro ebraico di Ferrara, promossa dal Museo Nazionale dell’Ebraismo Italiano e della Shoah (MEIS), la presidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche ha pronunciato il seguente discorso.

Con commozione ed entusiasmo vi porto oggi il saluto di tutte le comunità ebraiche italiane per questa festa del libero ebraico, ospitata quest’anno nella nuova cornice del MEIS, a riprova che questo Museo è un luogo nel quale si “espone” il nostro ebraismo, vivo e vibrante. È festa che è parte del viaggio millenario qui narrato.
Un libro, un qualsiasi libro, crea un rapporto tra lo scrittore e il lettore, quasi sempre un legame che resta nell’intimo di entrambi, senza – quasi mai – conoscersi, e certamente non si esaurisce con la lettura del libro, perché qualcosa di quella lettura resta per sempre. Ecco nel libro ebraico – se per ebraico volgiamo fare riferimento a quanto scrive una persona di religione ebraica, o israeliana, o sull’ebraismo anche da altri – ha qualcosa di speciale. Perché al di là del rapporto con lo scrittore vi è il rapporto con la propria identità, con un popolo, con una comunità, con una storia lunga e faticosa, con un fardello che non è solo quello nostro personale ma di una collettività. Quando si legge il libro ebraico si fa sempre attenzione a collocarlo nel tempo e nello spazio rispetto alle generazioni passate, per quanto potrà valere per le generazioni future, per quanto cambia o conferma una nostra convinzione. Si fa sempre un ragionamento sulla sua collocazione rispetto a categorie definite (o già definite) di morale e di correnti ebraiche, di adesioni o deviazioni rispetto al solco della tradizione, della religione, delle classi sociopolitiche affermate in un determinato contesto. È parlare qui del libro ebraico, oggi, in questa sede del museo della vita ebraica italiana, equivale per noi ad affermare che ci interroghiamo sulla nostra identità, sul nostro poter essere futuro, sul terrore che il libro che leggiamo sia profezia anziché memoria.
Il libro ebraico è allora una pagina, un paragrafo, un brano del Libro Primo, della Bibbia. Del nostro Libro divenuto patrimonio dell’umanità che resta fonte di insegnamenti, precetti, modelli che abbiamo accettato come eredità dei nostri padri, ma che mettiamo in discussione chiedendoci se tutto è eterno o se tutto cambia. E se solo qualcosa, cosa esattamente? E quanto è un testo comprensibile per altri se lo è così poco per noi? È un testo donato quando non era interamente scritto, enucleando quel difficile e complesso rapporto tra popolo-terra-codice. È il testo più antico e il rapporto con il suo autore è costante, anche quando si contesta, anche quando non si legge, anche quando si pensa di averlo dimenticato, anche nella più buia delle disumane esistenze, anche nelle più gloriose resistenze.
Giorgio Bassani scrisse:
“…Dentro di me c’era il desiderio che i miei racconti avessero un significato nuovo, più ricco e profondo di ciò che produceva la letteratura italiana d’allora, anche la più importante. A differenza degli altri, di tutti gli altri, io pretendevo di essere, oltre che un cosiddetto narratore, anche uno storico di me stesso e della società che rappresentavo. Mi opponevo. Ma non deve, ogni artista, opporsi sempre a qualche cosa che è stato fatto prima a lui? Allora mi trovavo all’inizio della mia operazione letteraria, né sapevo, certo, dove sarei finito. Volevo tuttavia oppormi a quella letteratura, da cui d’altra parte provenivo, che non dava un contenuto storicistico alla realtà di cui si occupava. Intendevo essere uno storico, uno storicista, non già un raccontatore di balle”.
Il nostro ruolo come istituzione, ma ancor prima come comunità ancorate all’identità ebraica è quello di essere autrici e lettrici, di scrivere con cura le pagine della nostra esistenza, per tramandare, condividere, analizzare, risolvere, approfondire ogni aspetto della nostra vita ebraica, nelle sue molteplici espressioni, e saper leggere, preservare antichi insegnamenti, saper interpretare fatti e questioni che tormentano o rasserenano. Ricordare che la nostra identità ebraica, a volte appena una scintilla, racchiusa nelle innumerevoli pagine scritte e lette con dolore dell’esperienza e la gioia della vita è un bene prezioso che dipende da un noi collettivo e da un io che ne sono parte, che quell’identità tramandata , a volte celata, è di un popolo che è spesso solo o isolato, ma che all’intera umanità il bene ha sempre donato.

Noemi Di Segni, presidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane