Periscopio – 1968
Collegandomi alla mia nota pubblicata mercoledì scorso, in cui svolgevo qualche considerazione sul 50° anniversario dell’assassinio di Robert Kennedy e di Martin Luther King, vorrei oggi dire due parole riguardo al giudizio generale che si può dare, 50 anni dopo, del ’68, quell’anno così intenso e ricco di esperienze, che pare avere segnato una svolta tanto profonda nella storia dell’Occidente. Le molte analisi che sono state formulate sui nostri mezzi di comunicazione hanno cercato di mettere in luce, da diverse angolazioni, le luci e le ombre di quel momento particolare, che ha visto secolari, consolidate abitudini diventare, oggetto, improvvisamente, di una radicale – a volte allegra e colorata, altre volte cupa e violenta – contestazione da parte di moltitudini di giovani, scesi in piazza, a San Francisco come a Parigi, a Roma come Londra e a Praga, per chiedere un cambiamento, da ottenere subito, “qui e ora”, senza alcuna possibilità di compromesso. In cosa consisteva, esattamente questa richiesta di cambiamento? È stata, almeno in parte, esaudita? E, se cambiamento c’è stato, di cosa, esattamente, si è trattato? Ed è stato, se c’è stato, un cambiamento di progresso, o di peggioramento?
Cercando di sintetizzare al massimo un giudizio che richiederebbe una lunga analisi storica e sociologica, direi che il ’68 e, soprattutto, le sue conseguenze, possono essere giudicate su tre piani diversi, che possono essere riassunte in tre semplici parole: autodeterminazione; istruzione; responsabilità. Proviamo a giudicarlo, il ’68, su ciascuno di questi livelli.
Per quanto riguarda l’autodeterminazione e le libertà individuali, credo che sia innegabile che quell’anno ha rappresentato un salutare scossone a un secolare bigottismo che – già superato, in larga parte, nei Paesi del nord e negli Stati Uniti – continuava a condizionare in modo oppressivo la società italiana, nella quale le due grandi Chiese dominanti – la cattolica e la comunista -, divise su tutto, erano sostanzialmente accomunate nel non dare ben poca considerazione alle istanze dei giovani, delle donne, dei diversi. Anche se la liberazione sessuale, per quanto c’è stata, non ha certo portato la felicità sulla terra, credo che nessuno rimpianga il tempo in cui le figlie e le mogli dovevano solo ubbidire, gli adolescenti maschi cominciavano a conoscere l’altro sesso nelle case di tolleranza, e le femmine cercando di sfogliare, furtivamente, qualche libro proibito. Alcune importanti conquiste raggiunte in seguito, come la riforma del diritto di famiglia e le leggi su divorzio e interruzione di gravidanza, hanno avuto proprio in quell’anno il loro punto di partenza.
Su questo piano, secondo me, il voto è positivo.
Per quanto riguarda l’istruzione, invece, non esito a dire che, con la nefasta battaglia – stravinta dai ‘sessantottini’ – contro la cd. ‘meritocrazia’, il ’68 ha prodotto danni irreparabili, i cui effetti sono ancora sotto gli occhi di tutti. Le liberalizzazioni dei piani di studio universitari (che permettevano, per esempio, di laurearsi in filosofia avendo superato esami di storia del cinema e del fumetto, ma senza neanche sapere chi fossero Aristotele o Kant), idiozie come il “18 politico” e cose del genere hanno permesso di allevare allegramente, in nome della rivoluzione e della “lotta al sistema”, intere generazioni di studenti somari, molti dei quali sono poi diventati docenti (sempre somari, ovviamente). Non che delle cose non dovessero cambiare, ci mancherebbe altro, sul piano del rispetto della dignità degli studenti e di molto altro. Ma non c’è stato nessun tentativo serio di promozione e di riforma, quello che si voleva erano solo rapide scorciatoie, in nome di “todos caballeros”, “todos compañeros”. Perciò (anche se l’esaminando lo avrebbe rifiutato con sdegno, perché le bocciature erano segno di sopraffazione ‘borghese’), su questo piano il ’68 va bocciato senza appello.
Ma la bocciatura più severa la merita, secondo me, sul piano della responsabilità, perché è proprio al che ’68 risale l’inizio di quel fenomeno degenere, tipicamente italiano, che Alessandro Barbano, nel suo bel libro, appena pubblicato, intitolato “troppi diritti”, chiama il ‘dirittismo’: ossia l’idea che tutti abbiano automaticamente diritto a tutto, e, soprattutto, che non ci siano mai doveri. Un’idea, ovviamente, che è quanto di più antisociale, antipolitico e anticomunitario si possa immaginare. E anche – per quel che può contare – quanto di più confliggente con l’etica ebraica, che, come insegna uno dei massimi studiosi di diritto ebraico, il mio Maestro Alfredo Mordechai Rabello, è un’etica di doveri, non di diritti.
Una promozione e due insufficienze, dunque. Esito complessivo, il ’68 è bocciato. Nessun 18 politico.
Francesco Lucrezi
(14 giugno 2018)