“Meis, una grande storia italiana”

Come costruire una narrazione contemporanea, che spieghi efficacemente un tema con radici così antiche come l’ebraismo? A chi rivolgersi? E quanto può essere di supporto la tecnologia?
Domande impegnative, difficili, che il Museo Nazionale dell’Ebraismo Italiano e della Shoah – MEIS si pone ogni giorno, sin da quando era solo un progetto. E sulle risposte a quelle domande si sono misurati, a Milano, negli spazi di Rizzoli Galleria, Aldo Grasso, Gad Lerner e Andrée Ruth Shammah, incalzati dal Direttore del Museo, Simonetta Della Seta. Tema del talk, promosso dal MEIS in collaborazione con Electa, “Ebrei, una storia italiana. Linguaggi e narrazioni per parlarne”, ovvero quali parole, immagini e forme di comunicazione per raccontare, oggi, oltre due millenni di ebraismo italiano. Una vicenda di cui il Museo focalizza una porzione nel percorso espositivo “Ebrei, una storia italiana. I primi mille anni”, teso a far passare il messaggio, “sconosciuto ai più – come ha sottolineato il Presidente del MEIS, Dario Disegni –, che la presenza ebraica nel nostro Paese è antichissima e di grande significato. In modo originale, ponendo al centro non gli oggetti – che pure ci sono e sono spesso straordinari –, ma le persone e i contesti di cui sono testimonianza, ne esce la storia di una minoranza che si è integrata nella società italiana ma senza assimilarsi, mantenendo e sviluppando la propria identità culturale e religiosa. Credo che questo – ha concluso Disegni – sia un tema di stringente attualità e un esempio interessante su cui riflettere, oggi che altre minoranze si affacciano nel nostro Paese, drammaticamente in fuga da guerre, barbarie e persecuzioni, e chiedono accoglienza”.
In questa narrazione, ha precisato Della Seta, il Museo gode di un vantaggio: non avere una collezione. “Invece di essere costretti a narrare partendo dai reperti, dobbiamo prima preoccuparci di come narrare, anche per far scoprire al pubblico i tantissimi oggetti legati alla presenza ebraica che l’Italia racchiude, ma che spesso non si sa nemmeno dove siano”.
Argomenti sul piatto sin dalla nascita del progetto museale, come ha ricordato Gad Lerner: “Fui coinvolto nel primo Consiglio di Amministrazione, quando il carcere era ancora tale e fu lanciato il concorso di progettazione, cui aderirono circa novanta studi di architettura di tutta Europa. Già allora ci chiedevamo in quale misura il Museo dovesse fare riferimento alla Shoah e in quale, invece, dovesse impersonare un ebraismo senza collezioni. Del resto, che collezioni avrebbe potuto avere? Codici meravigliosi, libri rari? L’ebraismo non è rappresentabile attraverso la storia dell’arte, come è invece il cristianesimo, ma attraverso la parola, la legge e la trascendenza mistica, che talvolta diventa quasi eresia e crea grande controversia in chi lo vive. Da questo punto di vista, è molto difficile tradurre l’ebraismo in forma di museo. È anche uno stato d’animo che io stesso vivo, essendo giornalista, comunicatore, lavorando da molto tempo in televisione e non avendo mai nascosto né dissimulato la mia identità ebraica. Questo richiamo non vittimistico della storia, che non accetta di ridurre l’ebreo alla sola figura di perseguitato e discriminato, credo abbia una funzione preziosa”.
“Gli ebrei – ha proseguito Lerner – vivono tuttora dentro di sé il trauma bimillenario dell’essere sfrattati dal mondo, della provvisorietà, del concepirsi, a differenza dei cristiani, come irredenti. Andrée viene da una famiglia di Aleppo, io sono nato a Beirut: l’ebraismo italiano è fatto di tanti vagabondaggi. Nelle circostanze buie e tristi che stiamo vivendo oggi, con il ritorno dalle viscere, dai sotterranei della nostra società di pulsioni reazionarie, xenofobe, discriminatorie, che si rivolgono contro altre minoranze in maniera persino più forte che contro gli ebrei, un museo come il MEIS ha anche un ruolo di sentinella. Nel suo Il bambino nella neve Wlodek Goldkorn dice che dobbiamo essere un po’ come i canarini che i minatori portavano nel sottosuolo: quando morivano nella gabbietta, significava che c’era una fuga di grisù. Sono contento che l’UCEI abbia preso una posizione decisa, l’altro giorno, di fronte all’obbrobrio di un’ipotesi di censimento etnico, ricordandoci che nell’agosto del 1938 il censimento degli ebrei fu annunciato con la precisazione “lo facciamo per proteggervi”. “Discriminare, non perseguitare” era la velina che Mussolini diffuse ai grandi giornali e che questi ossequiosamente diramarono. E sappiamo l’impunità che ne è seguita: non solo il senso di autoindulgenza e assoluzione che a molti fa ancora dire che in Italia è stato meno pesante che altrove – un falso totale –, ma il fatto che i protagonisti di quella campagna razziale se la siano cavata tutti alla grande. Da Telesio Interlandi, morto ricco nel suo letto nel 1965, a Gaetano Azzariti, Presidente del Tribunale della Razza e poi della Corte Costituzionale, fino a Giorgio Almirante, segretario di redazione de “La Difesa della razza”, poi leader politico che oggi viene omaggiato intitolandogli delle strade”.
Sentinelle nei musei, sentinelle sui palcoscenici, come ha spiegato Andrée Ruth Shammah: “Abbiamo nel nostro Dna il bisogno di uscire dalla forma in sé, di avere qualcosa da dire ed è una grossa responsabilità. Perché interpelliamo la gente per parlarle della parte della nostra storia che riguarda tutti. Abbiamo ricevuto la Torah nel deserto, ma l’abbiamo ricevuta per tutti ed è per tutti che custodiamo le parole di etica e di giustizia. Dunque, non c’entra di cosa parliamo, ma la necessità che abbiamo di dire delle cose. Anche il teatro ebraico non è solo quello che si occupa di argomenti ebraici. Personalmente reputo un grande regista di teatro ebraico Peter Brook, che pure ha parlato del Mahabharata, di mondi e culture diverse”.
Ma come coinvolgere il pubblico? “Bisogna riuscire a far comprendere a ebrei e a non ebrei che ciò che succede dentro l’ebraismo è spesso l’anticamera di ciò che sta per succedere agli altri. E il contributo che l’ebraismo può dare è la complessità di un ragionamento. Noi ebrei siamo fuori dal tempo e dallo spazio, ma è importante che ci siano dei luoghi fisici nei quali affrontare certi argomenti in un modo che sia utile a tutti. Io ho scoperto, voluto e rivendicato la mia identità ebraica molto tardi, dopo che mia madre aveva cercato di farmi cancellare dei ricordi e mi aveva mandata in una scuola cattolica. E in questo momento, in cui tanti sentono la necessità di affermare il proprio ebraismo, il MEIS è fondamentale. Poi mi piace l’idea che da un carcere esca la cultura. Anche il mio teatro (il Teatro Franco Parenti, ndr), a Milano, era dei fascisti, ma io l’ho fatto rinascere”.
Il pubblico di cui parla Andrée Ruth Shammah ha una fisionomia piuttosto nitida: “Chi sta assecondando i propri istinti peggiori, chi segue in modo brutale certi segnali, perché in ogni essere umano c’è una parte migliore e dobbiamo aiutare queste persone a tirarla fuori. La nostra cultura e il museo di Ferrara possono farlo. Ci siamo allenati a far convivere cose che di solito difficilmente convivono, abbiamo una multi-identità e dobbiamo far sapere che è la ricchezza di un paese, non un problema”.
È uno dei messaggi che il MEIS sviluppa nel suo percorso espositivo e con iniziative come quella, in collaborazione con il Comune di Ferrara, che dovrebbe presto vedere impegnati al Museo, nelle vesti di giardinieri, degli immigrati: “Non è solo un fatto simbolico – chiarisce il Direttore –, ma molto reale. Il nostro Museo sta diventando una casa, e non solo per gli ebrei, in cui si trasmettono dei valori e un’esperienza di integrazione e di dialogo che dà speranza”.
“La multi-identità – ha ripreso il concetto Lerner – la duplicità che ci accompagna tutti da sempre, per esempio nel nostro legame fortissimo con Israele, ma penso anche al “Lech Lechà” (al contempo “Vattene” e “Vai verso te stesso”) con cui si aprono Genesi 12 e la mostra del MEIS, è un contenuto che un museo non può trascurare. Il richiamo esercitato oggi da molti autori ebrei nella letteratura, nella storia, nel cinema e nella televisione, la nascita in Italia di diverse istituzioni ebraiche, che si sforzano di svolgere la funzione di sentinella – come l’ospitalità, qui a Binario 21, dei profughi che arrivavano alla Stazione centrale –, derivano dal tema dello sradicamento, che la testimonianza ebraica, una volta liberata dai ghetti, ha reso un messaggio universalistico e non particolaristico”.
Una sfida comunicativa non facile, come ha premesso subito Aldo Grasso, che è anche nel Comitato Scientifico del MEIS: “Comunicare le cose difficili oggi è una sfida quasi impossibile, perché è in atto ovunque un processo di semplificazione, di banalizzazione contro la complessità e i progetti articolati. Credevamo che l’elettronica, la digitalizzazione della comunicazione ci avrebbe aiutati e invece siamo nella fase discendente della complessità, con tutti i pericoli che ne conseguono. Prendiamo le elezioni americane: la stampa, i programmi e le televisioni più intelligenti erano contro Trump, ma ha vinto lui e una cosa simile è successa anche in Italia. Nel caso del Museo, si è deciso di insistere sulla storia dell’ebraismo italiano, perché non è così scontato che anche persone non sprovvedute sappiano, ad esempio, quanti sono gli ebrei oggi in Italia o che la religione ebraica è arrivata da noi prima di quella cristiana. Quando si danno per scontate queste cose, è difficilissimo comunicarle, perché i luoghi comuni e i pregiudizi non permettono di ricostruire una storia identitaria. Poi una storia che è fondata soprattutto sulla parola è doppiamente difficile rispetto a tradizioni che hanno in altre arti espressive la possibilità di raccontarsi”.
Il primo passo da fare è quello di trasformare un segno negativo in uno positivo: “Quando sono entrato per la prima volta nell’ex carcere di Ferrara – ha ammesso Grasso –, ho pensato che non andasse bene, che il Museo si sarebbe sempre portato dietro l’idea che l’ebraismo è qualcosa che va rinchiuso. Poi, vedendo com’è stato trasformato, ho capito che era stata un’ottima idea quella di rivoltare una prigione nel suo opposto, in qualcosa che è invece pieno di vita e di speranza”.
Nell’esporre la propria ricetta per una comunicazione efficace, Grasso si è richiamato a un documentario di Julien Bryan, il cineasta americano che nel 1937 riuscì a girare delle immagini a Berlino, unica voce fuori dal coro della propaganda nazista: “La sua passione per la vita quotidiana ne faceva una sorta di documentarista-antropologo. Racconta la vita della Berlino di tutti i giorni, degli ebrei berlinesi, l’assalto ad alcune sinagoghe e riesce poi a trafugare queste pellicole e a portarle negli Stati Uniti. Dove il suo lavoro ha avuto un grande successo per due motivi: è riuscito a cambiare la percezione che la parte più colta degli americani aveva della Germania e ha mostrato come anche un documento filmato possa essere una fonte storica, dunque indiscutibile. Forse è a questi due obiettivi che dovrebbe puntare un museo: cambiare la percezione delle cose di chi lo visita e viene per la prima volta a contatto con un mondo diverso; essere un documento, una testimonianza inoppugnabile”.
Secondo Shammah, il fatto che sia difficile parlare alle grandi masse non è un problema, “perché le minoranze poi conducono, condizionano e trascinano più dei grandi numeri. Raggiungere sempre più gente, inoltre, può comportare di dover annacquare la comunicazione, anziché parlare in modo preciso e colpendo la pancia anche di poche persone, ma appassionate”.
Persone appassionate, magari giovani. Come quelli che proprio ieri hanno potuto scegliere come tema di maturità il brano tratto dal “Giardino dei Finzi-Contini” di Giorgio Bassani: “Mio figlio – ha confidato Lerner – oggi ha dato l’esame e ho pensato che nel giugno del 1938 avrebbe ancora potuto farlo, perché non era neanche concepibile che seimila studenti ebrei a settembre sarebbero stati espulsi dalle scuole. Le cose succedono molto in fretta, anche quelle più impensabili”.
E come rivolgersi, allora, proprio ai giovani? Come si farebbe pensando di rivolgersi alla maggioranza meno intelligente (non per forza nel senso di stupida, ma magari menefreghista, apatica, refrattaria alla complessità), secondo quanto teorizzava P. T. Barnum, inventore dell’omonimo Circo e considerato il padre dell’industria dell’intrattenimento? “Un museo – ha spiegato Grasso – ha un aspetto fortemente identitario, che la mostra del MEIS comunica molto bene, in maniera culturalmente complessa, senza banalizzare. Ma bisogna arrivare anche alle scolaresche, per me il target più importante su cui lavorare, e lo si può fare solo con la tecnologia, con una comunicazione per immagini che sappia passare dalla sfera razionale della parola a una sfera più emotiva, che stimoli l’immedesimazione. Le classi sono il pubblico che ancora può emozionarsi e cambiare la propria percezione delle cose. Nella mia esperienza quarantennale di insegnamento, ho visto che, più le persone crescono, più si caricano di pregiudizi, di certezze, mentre finché sono giovani c’è ancora una sfera del loro intelletto che può essere colpita, suggestionata in modo positivo”.
E le scuole – ha evidenziato Della Seta – al MEIS non mancano: “Vengono da tutta Italia e i bambini si divertono nel Giardino delle Domande, dove possono imparare le regole dell’alimentazione ebraica, e con i laboratori creativi. E ci rivolgeremo a loro anche con le nostre prossime iniziative: il grande percorso sul Rinascimento ebraico cui stiamo lavorando con Giulio Busi e che aprirà il 14 marzo, e la mostra di Dani Karavan che inauguriamo il 31 ottobre, dal titolo “Il giardino che non c’è”, per chi viene a Ferrara a cercare la magia del giardino di Bassani.
Daniela Modonesi
(21 giugno 2018)