SPORT “Razzisti in curva, facciamo così”

PE tardelliMarco Tardelli / TUTTO O NIENTE / Mondadori

Contro i razzisti negli stadi serve il metodo Thatcher, la “lady di ferro” che non esitò a usare il pugno duro. A invocarlo è Marco Tardelli, uno dei grandi protagonisti del Mondiale del 1982 vinto in Spagna. Una generazione di fenomeni, di cui in queste settimane tutta l’Italia ha sentito una gran nostalgia. Ma anche atleti col cervello e dotati di una spiccata sensibilità umana, come dimostrano le successive carriere, una volta appesi gli scarpini al chiodo, di tanti di loro. L’esultanza di Tardelli dopo il goal ai rivali tedeschi in finale ha rappresentato e continua a rappresentare uno spot globale per il calcio pulito e genuino. La gioia liberatoria per il sogno del trofeo che si faceva realtà dopo le iniziali titubanze dei ragazzi di Bearzot, l’urlo prolungato al cielo, agli spalti, al futuro, di chi sa di aver scritto un pezzo di storia azzurra che resterà per sempre. Ma Tardelli, ex calciatore, ex allenatore e oggi apprezzato opinionista, oltre che autore insieme alla figlia Sara di una fortunata autobiografia che parla di calcio ma in realtà parla di vita autentica, condita da tante emozioni agonistiche, non ha smesso di parlare. In modo misurato, con garbo ma incisività, dice cose che non tutti forse hanno piacere di sentire, ma che hanno il pregio di non eludere i problemi ancora irrisolti del turbolento mondo che fa da cornice alla Serie A. Problemi, come le cronache dei giornali talvolta ci ricordano, troppo spesso sottovalutati.tardelli Metodo Tatcher e quindi, nel solco delle iniziative adottate negli anni in Gran Bretagna, che come noto ha affrontato in passato una gravissima minaccia da più fronti del cosiddetto “mondo ultras”, con tanti morti purtroppo sulla coscienza dei gruppi più estremisti, ferma repressione dei comportamenti scellerati e talvolta delinquenziali di chi oggi mette in pericolo il futuro dello sport più amato dagli italiani (ma, viene da chiedersi, ancora per quanto?). Repressione ma anche una nuova cultura sportiva da valorizzare in ogni sede. Parole e messaggi inequivocabili per chi, ai più alti livelli, è chiamato a intervenire per invertire la rotta. Significativo leggere cosa Tardelli scrisse in una lettera aperta pubblicata dal quotidiano La Stampa, dopo l’episodio degli adesivi antisemiti con ritratta Anna Frank in ma-glia giallorossa apparsi nella curva della Lazio lo scorso ottobre. “Alla severa condanna senza appello e senza scuse per l’ignobile bravata del manipolo di laziali all’Olimpico – rifletteva Tardelli, che in carriera ha vestito tra le altre le maglie di Juventus e Inter – non si deve aggiungere altro. Restano tuttavia alcune considerazioni generali. Razzismo, antisemitismo, xenofobia, omofobia sono mali eterni con i quali lo sport non dovrebbe mai avere a che fare eppure questi bachi nel cervello di esaltati facinorosi lo inquinano”. Aggiungeva poi Tardelli, ed era il punto essenziale del suo pensiero: “Si dice, stupidamente: ma sono pochi, non preoccupano. Pochi? E allora perché li si lasciano scorrazzare?”. La ricettainvocazione ai “signori del calcio” era questa: negli stadi tolleranza zero. E non ci vuole poi tanto coraggio: basta ispirarsi, sostiene l’eroe del Mundial iberico, “alla Thatcher che sgominò gli hooligan in una sola notte”. Il risultato è che adesso in Inghilterra “tutti si godono il calcio in tranquillità e allo stadio vanno le famiglie con ragazzi che amano lo sport”. E che, si augura, “spero abbiano letto il Diario di Anna Frank”. Lo raggiungiamo telefonicamente a poche ore dalla decisione della federazione argentina di cancellare la partita amichevole con Israele, programmata alla vigilia del Mondiale. Un fatto che lo ha profondamente scosso. “Lo sport non dovrebbe mai essere strumentalizzato”, risponde amaramente. La paura quando si parla di incolumità fisica è umana, prosegue, “ma se a ogni minaccia ci si tira indietro diventa difficile risolvere i problemi aperti”. Il riferimento è alle parole di odio, cui sono seguite alcune iniziative concrete, di varie associazioni palestinesi. Un blocco, orchestrato insieme al Movimento Bds e cui anche il numero uno della locale federazione, Jibril Rajoub, ha aderito con dichiarazioni di fuoco e l’invito, in caso di conferma del match, “a dare alle fiamme le divise argentine” e in particolare quella dell’uomo più rappresentativo della Seleccion: Lionel Messi. “Nella mia vita – spiega Tardelli – mi è capito di affrontare le situazioni più disparate, ma una così non mi è mai successa. Male, molto male”. Ha il pregio (per qualcuno il difetto) di parlare chiaro, Marco Tardelli. E da qualche anno lo sta facendo persino alle Nazioni Unite, dove è stato invitato a intervenire su temi a lui molto cari quali lealtà, correttezza in campo, lotta al doping e al razzismo davanti a una platea di ambasciatori del futuro: giovani tra i 16 e 25 anni che si sono ritrovati al Palazzo di Vetro, sotto l’egida dell’associazione I diplomatici e nel segno dello slogan “Change the world” che sta ispirando impegni concreti. Ammetteva l’acclamato ospite: “Per un italiano è ancora più difficile parlare di lealtà e correttezza, sport giovanile, razzismo: sono mali che affliggono pesantemente il nostro calcio. Ma spero che i ragazzi recepiscano il mio grande amore per lo sport e la voglia di cambiarlo perché ritorni finalmente quello spettacolo che portò la nostra Nazionale a sorprendere il mondo e a trionfare in Spagna”. A Russia 2018 siamo rimasti a casa, a guardare gli altri giocare e a logorarci per il nostro modesto presente di comprimari cui, per storia e tradizione, non siamo certamente abituati. Sarebbe bello se, in un futuro che ci si augura più soddisfacente, ripartissimo da queste sacrosante parole. Le parole di un campione vero.

IL LIBRO: Scritto insieme alla figlia Sara, Tutto o niente è il racconto di come il calcio ha segnato la vita, le passioni, i sogni di Marco Tardelli. Dall’infanzia passata tra i monti della Garfagnana e la periferia di Pisa, le prime partite all’oratorio; i soldi guadagnati durante le vacanze estive come cameriere e i deludenti provini per club di serie A. A 20 anni, dopo aver indossato le maglie di Pisa e Como, l’arrivo alla Juventus, con la quale in dieci anni conquista un’impressionante serie di vittorie. Nel mezzo, la gloriosa carriera azzurra con la Nazionale di Enzo Bearzot nell’entusiasmante spedizione in Argentina (1978), in quella trionfale in Spagna (1982) e in quella sfortunata in Messico (1986).

Adam Smulevich, Pagine Ebraiche, luglio 2018