MEMORIA Testimonianze dagli inferi

laurence ressLaurence Rees / OLOCAUSTO. UNA NUOVA STORIA / Einaudi

Perché prendere in mano ancora un libro sullo sterminio? Di testi fondamentali ne abbiamo già parecchi. Possediamo molte testimonianze di vittime, interi dossier sui carnefici e sui loro zelanti servitori, valutazioni analitiche dell’ideologia razzista e del suo impatto sociale. Olocausto. Una nuova storia, di Laurence Rees ha un titolo azzardato. Come può essere “nuova” una storia di un evento così studiato, dibattuto, commemorato? Rees vanta una lunga esperienza di divulgatore. Direttore di programmi storici per la Bbc, produttore di documentari in proprio, autore di libri di successo, ha scritto e filmato molto sul nazismo. Sono credenziali di tutto rispetto, ma non necessariamente garanzia di “nuovo”. La verifica dei titoli va fatta pagina per pagina, cercando di cogliere il nocciolo, o forse sarebbe meglio dire l’anima di un’opera. Giunti alla fine delle oltre 500 pagine di racconto, la novità si può concretizzare e precisare. Il nuovo non è nelle tesi generali né nell’insieme dei dati. Quello che Rees raggiunge è ciò a cui dovrebbe sempre tendere una buona divulgazione. Mettere sotto gli occhi quel che è stato, e puntare il dito su come sia avvenuto. II lettore viene accompagnato passo passo in questo “come”, e capisce come l’evento Shoah si rifranga di migliaia, milioni di destini. Lo chiamiamo con un unico nome, ma di fatto è il risultato di una miriade di eventi, che si sommano progressivamente in un crimine inaudito e in un’inaudita sofferenza. La Shoah è acqua infernale, che procede senza sapere dove. Un fiume livido, che si attorciglia nelle sue spire. Opaco, livido, limaccioso. Il mare in cui si getta è quello della morte. Ma non subito, non in una volta sola. A ogni ansa si perde un grumo di vite, eppure la fine non è mai in vista. Rees restituisce con molta vivezza, forse al di là delle sue stesse intenzioni, l’andamento tortuoso dell’Olocausto. L’aspetto migliore del lavoro è l’uso di moltissime testimonianze, incastonate nella narrazione attraverso inserti anche minuti. Frasi, deposizioni, spezzoni di interviste, spesso tratte dai documentari che Rees stesso ha curato, restituiscono come un vociare, un ritmo dissonante, che ricrea quella confusione assordante che chiamiamo storia. La storia è confusa e stordente nel momento in cui avviene. Quando si è dentro agli avvenimenti, è difficile capire da che parte andranno, che piega prenderanno. Solo pochi, e spesso neppure i più preparati e saggi, riescono a trasformare all’istante questo rumore di fondo in un discorso comprensibile. La storia urla o mormora, quasi mai parla chiaramente. E così avviene anche per la Shoah. Visto da dentro, tra le spire del violento razzismo nazista e l’ansia sempre più cocente dei perseguitati, il procedere degli eventi è talvolta tumultuoso talaltra incredibilmente obliquo. Uno tra i tanti esempi di questa pantomima ai bordi della morte riguarda un messaggio proveniente da Himmler, per un reggimento delle SS, impegnato in territorio sovietico: «Ordine esplicito del Reichsfuhrer-SS. Tutti gli ebrei devono essere fucilati. Le donne ebree vanno cacciate nelle paludi». Il comandante del reparto risponde a Berlino: «Cacciare le donne e i bambini nelle paludi non ha avuto l’effetto che si presumeva, in quanto le paludi non sono abbastanza profonde per consentire l’affondamento. A circa un metro di profondità si tocca quasi sempre la terra ferma, e dunque l’affondamento si è rivelato impossibile». È un’accozzaglia di cinismo, brutalità e implacabile efficienza, cui fa da sottofondo la voluta ambiguità delle istruzioni. Per evitare di prescrivere chiaramente l’uccisione di donne e bambini, Himmler usa una perifrasi ambigua, e lascia ai sottoposti sul campo il compito d’interpretarla. Chi gli risponde mostra di aver capito il sotto testo, e fa presente che il metodo si è rivelato inefficace. Gli inermi non si sono potuti uccidere, e quindi bisognerà tentare in altro modo. Sarebbe sbagliato pensare che l’annientamento degli ebrei abbia seguito una strategia unica, decisa sin dall’inizio. Si è trattato piuttosto di un percorso alla cieca, con un progressivo affinamento dell’efferatezza, in cui i nazisti hanno messo a frutto la macabra esperienza fatta attraverso l’uccisione dei disabili, chiamata eufemisticamente eutanasia, e con l’eliminazione di centinaia di migliaia di prigionieri di guerra sovietici. Ma il libro non dà conto solo del procedere dei perpetratori. Nell’assordante rumore della storia, alle vittime tocca gridare per far sentire il loro dolore. Anche dopo il 1945, agli scampati dai lager è stata per lungo tempo negata la parola. La loro voce ha trovato sfogo solo a poco a poco, e con difficoltà. Ho cercato di censire le frasi che, in questa “nuova storia”, parlano delle grida di chi veniva torturato e ucciso. Sono decine e decine, tutte riferite a testimonianze concrete, virgolettate, citate per esteso in bibliografia. Anche in questo caso, dobbiamo limitarci a un solo passo: «Dopo il taglio dei capelli, le donne seguivano gli uomini nelle camere a gas. Così come nei Gaswagen, la morte nelle camere a gas di Belzec non era rapida Reder ricorda di aver sentito “gemere” e “urlare” quelli intrappolati all’interno delle camere a gas anche per quindici minuti». Rudolf Reder, mandato a Varsavia. L’ultimo grande rastrellamento nazista degli ebrei nel ghetto di Varsavia, 1944 Belzec dal ghetto di Lwów nell’agosto del 1942, ha scritto l’unico racconto personale su quel campo. Una nuova storia vuol dire anche questo. Far risuonare le grida di chi non ha più voce. Diffonderle per 15 minuti, per 500 pagine, per sempre.

Giulio Busi, Il Sole 24 Ore Domenica, 8 luglio 2018