Eichà
La Rabbanit Shulamit Furstenberg-Levi ha offerto, in occasione di un incontro a più voci svoltosi giovedì 12 luglio nel giardino della sinagoga fiorentina alla presenza del rabbino capo di Firenze rav Amedeo Spagnoletto, di rav Crescenzo Piattelli e di rav Alberto Sermoneta, alcuni interessanti spunti di riflessione sulla meghillat Eicha.
Scritta dal profeta Geremia dopo la distruzione del primo Tempio nel 586 a.E.C. e letta ogni Tisha Be Av, Eichà, “come” è la prima parola del rotolo da cui le Lamentazioni prendono il nome ebraico: “Come mai siede in solitudine la città ricca di popolo?” (1,1).
Grande è la paura del caos espressa sin dai primi versi del testo, ma già la struttura sembra offrire una possibile risposta alla sofferenza generata dalla desolazione in cui versa il popolo: nel primo, secondo e quarto capitolo l’iniziale di ogni verso è in ordine alfabetico, mentre nel secondo capitolo la sequenza alfabetica va di tre versi in tre versi, quasi a voler mettere ordine e così porre dei limiti alla sofferenza.
Il pianto di Gerusalemme mostra infatti tanta disperazione e tanto dolore, solitudine e frustrazione (molti suoi amici l’hanno tradita), ma c’è sempre un ma, un raggio di luce che fa intravedere una speranza, un varco montaliano verso un percorso veritiero e salvifico: tutto il male che si è riversato su Israele è una punizione del Signore per il comportamento tenuto, e dunque c’è una possibilità di teshuvà da parte di Am Israel e di perdono divino, nella speranza che Dio ascolti: “questo, farò ritornare al mio cuore e su questo spererò” (Eichà 3, 21).
Così, la forza interiore di guardare dentro di sé instilla in Israele la consapevolezza che il Signore ha davvero ascoltato, e la preghiera si volge in constatazione ed esortazione (“hai visto Signore il mio torto, difendi il mio diritto”: 3,59).
I verbi nel terzo capitolo sono al passato, nota Furstenberg-Levi, ad indicare proprio il sollievo generato dal fatto che le punizioni sono passate, e Dio ha sentito il dispiacere del popolo e la volontà di cambiamento, fino all’esortazione finale, “Facci tornare, Signore, a te, e ritorneremo” (5, 21): come rammenta Chouraqui, un reiterato grido di speranza (Les cinq volumes: le Poème des poèmes, Routh, Quoi?, Qohèlèt, Estér, a cura di André Chouraqui, Paris, Desclée de Brouwer, 1975, p. 78).
Non è un caso, allora, che le stesse immagini di Eichà siano riprese oltre sessant’anni più tardi in Zacaria, rovesciando specularmente quanto vi era descritto e trasformandolo in senso positivo: ove c’erano morte e distruzione nelle strade di Gerusalemme, ora “il Signore si prenderà cura di ogni abitante” (12, 8).
Sara Valentina Di Palma
(19 luglio 2018)