Uguale, non identico

torino vercelli«Una volpe affamata, come vide dei grappoli d’uva che pendevano da una vite, desiderò afferrarli ma non ne fu in grado. Allontanandosi però disse fra sé: «Sono acerbi.» Così anche alcuni tra gli uomini, che per incapacità non riescono a superare le difficoltà, accusano le circostanze» (Esopo, la volpe e l’uva). L’epoca che stiamo vivendo è caratterizzata da molti cambiamenti. Ci sconcertano poiché ad essi possiamo rispondere solo utilizzando gli strumenti, le strategie, le parole che abbiamo costruito e poi condiviso nel tempo trascorso. Ma ciò che chiamamo “crisi” sta appunto nell’inefficacia delle une e delle altre cose. Affrontiano le trasformazioni con una strumentazione che sempre più spesso rivela la sua fragilità, essendo essa stessa il prodotto del passato. È quindi crisi l’impossibilità di fare fonte al mutamento con gli apparati concettuali, i modi di pensare, gli atteggiamenti che nel passato anche recente – invece – funzionavano. Dopo di che, ci sono cose che si ripetono. Non la storia, come un po’ maldestramente e volte si propende ad affermare, bensì alcuni suoi indirizzi e motivi di fondo, ovvero determinati aspetti che ne connotano l’evoluzione verso certi esiti. Fermo restando che nessun risultato può essere previsto, e quindi definito a priori, poiché le variabili che entrano in gioco sono sempre tantissime, molte delle quali non computabili razionalmente prescindendo dal momento stesso in cui si manifestano. Detto questo, la sensazionie che si ha è che una lunga epoca, avviatasi con il 1945, alla fine di un conflitto estenuante e catastrofico, si sia definitivamente chiusa. Gli assetti, gli equilibri, le forme e i criteri di mediazione che derivarono dalla cessazione della Seconda guerra mondiale, e che valsero a lungo per i singoli paesi così come nell’arena internazionale, si sono prima usurati e poi consunti. Oggi, per così dire, ne raccogliamo i cocci, senza però ben sapere cosa da ciò ne deriverà concretamente. La qual cosa incute in molti timore. In quanto sappiamo cosa siamo stati, intuiamo ciò che siamo divenuti ma temiamo ciò che potremmo essere nel futuro. Soprattutto, quello che non potremmo essere, poiché impediti nell’aspettativa di una ragionevole evoluzione che continui a vederci protagonisti del nostro stesso cambiamento. L’ansia da impotenza è un sentimento molto diffuso nelle nostre società, rischiando, quando si ripete come una sorta di condizione tanto sgradita quanto inesorabile, di trasformarsi in risentimento. Quest’ultimo corrisponde al ripetuto stato d’animo che deriva dal sentirsi ingiustamente privati di qualcosa, spesso cercando nelle persone che ci stanno accanto i responsabili in carne ed ossa di una tale situazione. Su di essi si ritiene, quindi, di avere un diritto di rivalsa. Le risposte “identitarie”, a livello delle singole persone come nei gruppi più ampi, fino alle società nazionali, si inscrivono in questo stato dell’incertezza. Che non riguarda tutta la popolazione ma quella parte, molto spesso per nulla minoritaria, che si confronta con quel dubbio che è persistente poiché si presenta tra di essa senza il sollievo di una qualche risposta a venire. Non si tratta di atteggiamenti amletici, di ghiribizzi “filosofeggianti”, bensì di un concreto e diffuso disagio. Il mutamento del panoramo politico che sta caratterizzando un po’ tutti i paesi a sviluppo avanzato, si inscrive anche all’interno di queste dinamiche. Le raccoglie, gli dà una qualche forma, non importa quanto fallace e, a conti fatti, regressiva. Sarà infatti il tempo ad incaricarsi di dire qual è l’esito effettivo del ripetersi di atteggiamenti che si fanno poi indirizzo politico dominante. Il problema non sta in ciò che verrà ma in ciò che non sta avvenendo. L’idea di continuare ad alimentare uno status quo – in economia, nelle società, nella stessa politica – di cui beneficiano solo certuni a scapito dei molti altri, è la vera illusorità del tempo corrente. Ciò su cui rischiano di precipitare gli equilibri residui che faticosamente sono stati edificati dopo la catastrofe bellica europea. Ancora una volta valga allora il richiamo al fatto che l’atteggiamento verso le minoranze – chiunque esse siano, ovunque si trovino, qualunque cosa esse esprimano in termini di codici di appartenenza – è l’indice su cui misurare lo stato di salute della maggioranza. La questione dell’identità ruota attorno a questa dinamica, non certo all’idea di ciò che si vorrebbe essere. Chi sente il bisogno di circoscriverla con un perimetro che dovrebbe invece corazzarla, quasi che si trattasse di un prodotto privo di storia, ossia dato una volta per sempre, è destinato ad essere prima o poi sconfitto dalla storia stessa. Che è il prodotto dell’evoluzione e della trasformazione. Gli individui e le comunità umane che non abbiano capacità di adattamento con l’ambiente circostante (fatto di altri individui e gruppi sociali) sono destinati inesorabilmente al declino. Possono declamarsi come imperituri, depositari di una tradizione immodificabile ma, ciò facendo, già rivelano in sé la loro congenita fragilità. Scontando il rischio dell’autoisolamento. Mai fare la parte di quei rospi che si gonfiano nel momento del “pericolo”: si rischia prima o poi di esplodere, senza neanche il sollievo di una principessa che intervenga per baciare un essere che, alla prova dei fatti, rischia di risultare sgradevole ai molti. In assenza di un Esopo che, a cose compiute, ne sappia cantare l’infelice traiettoria.

Claudio Vercelli