L’imperio della puerilità

torino vercelliÈ progresso non una mera condizione di accumulazione di “roba”, di beni perlopiù inutili all’esistenza gratificata dell’individuo, bensì un’evoluzione e trasformazione verso condizioni di maggiore consapevolezza. La consapevolezza, a sua volta, non corrisponde con il potere “fare tutto”, delirio infantiloide di onnipotenza destinato a fare sbattere la testa contro il muro (a rompersi è la testa, non il muro), bensì con la cognizione che si esiste come individui, depositari di una dignità inalienabile perché si hanno dei limiti da rispettare. La cialtroneria del presente consiste, invece, nel cancellare questa consapevolezza, sostituendola con un demenziale desiderio, quello di non dovere rispettare niente e nessuno. Chi si nutre di questo autoinganno – di ciò si tratta, non di altro – è schiavo del suo infantilismo. In un diffuso regime politico e culturale che incentiva le regressioni nel proprio passato individualistico, dove si esaltano le virtù dell’egocentrismo (che in politica oggi si chiama “sovranismo”) come una sorta di assoluto insindacabile, la strada verso la perdita dell’emancipazione è dietro l’angolo. Non solo per le minoranze bensì per la maggioranza. La comunicazione, allora, si trasforma da scambio razionale in invettiva umorale. Il confronto di posizioni deraglia nell’esercizio di bile e nelle contumelie contro colui che non è inteso come un interlocutore bensì come un ostacolo da abbattere. La riflessione critica viene sostituita dall’ossessione polemica, ripetendo maniacalmente una serie di cliché, di luoghi comuni, di sigle artefatte che sostituiscono l’obbligo di contare fino a quattro prima di dire qualcosa di un poco sensato e pertinente. L’attacco, il più delle volte, si fa personale, ben oltre i limiti dell’offesa, divenendo deliberato e compiaciuto dileggio. Miseria umana, si dirà. Non basta. Dietro questa – e altre – pratiche, sempre più diffuse, c’è una concezione del mondo (a partire dal proprio, quello vissuto quotidianamente, nelle proprie relazioni personali) che scambia la banalizzazione della realtà per capacità di gestirla. Mai un equivoco fu più pernicioso di questo, nel passato così come nel presente. Alcune formazioni politiche se ne sono fortemente avvantaggiate, e non è una novità, tantopiù se si fanno raffronti storici con determinati trascorsi europei. Tuttavia il punto non è solo questo. Poiché la vera condanna di un tale stato di regressione non sta nel “fare la morale” a chi si adagia e adegua ad essa, chiunque egli sia. A quale titolo, poi? Non c’è morale che tenga, peraltro, se certi comportamenti da medioevo tecnologico servono a lenire il senso di impotenza e di irrilevanza che tanti contemporanei vivono come orizzonte quotidiano. Semmai è il riscontro della perdita di residua autonomia, e quindi di libertà, che deve indurre a riflettere su quanto sta avvenendo. La decadenza, infatti, non è dei costumi ma dei diritti. Qualsiasi nuovo autoritarismo, infatti, si spaccerà sempre e comunque come il soggetto collettivo, ovvero politico, in grado di generare un nuovo imperio della “moralità”, un tema che da sempre è caro a chi vuole limitare libertà ed autonomia collettive. Ovviamente a proprio esclusivo beneficio. La democrazia è un esercizio costante, a tratti faticoso, della ragione. Non dell’emozione indignata, così come dello sguardo puerile, facilone, aggressivo nei confronti di una realtà che, non sapendo come trasformare, semplicemente si cerca di cancellare con un tratto di penna, con una mitragliata di parole. Si tratta dell’unica possibilità che ci è concessa per cercare di uscire da quella condizione di minorità culturale, prima ancora che politica, che è il sonno della ragione. Poiché questo, come è ben saputo, genera altrimenti mostri. Quale l’”uomo qualunque” sa essere nella misura in cui è compiaciutamente inconsapevole di se stesso.

Claudio Vercelli

(29 luglio 2018)