A me mi

valentina di palmaDa qualche tempo un piccolo tarlo mi rode lentamente, volicchiando da un orecchio all’altro. Se lo scaccio, si ripresenta quando sono sovrappensiero, cogliendomi impreparata. È in un articolo di giornale. In un servizio televisivo che sento passando accanto ad un bar. È nella musica che ascolto alla radio mentre guido sola.
Il tarlo è nei bambini che tornano da scuola. Escono con tutti i congiuntivi e la consecutio temporum in cartella, e tornano chiedendomi la pasta in bianco perché “a me non mi piace il sugo”. Storco la bocca, e rispondo, “a te non piace il sugo, e pensare che a me invece piace tanto”! Sottolineo con enfasi i pronomi, non si sa mai che come il contagio è arrivato in loro, così si incamminino verso la guarigione. Reprimo il brivido lungo la schiena, scrollo le spalle e cucino la pasta (in bianco e al sugo).
Lo studioso Alessio Figalli vince la medaglia Fields, e il Presidente del Consiglio si complimenta con lui esortando “a investire nei nostri giovani e sul sistema d’istruzione e formazione Italia”. Forse che scrivere su Twitter impone altro, oltre alla brevità? Questo linguaggio pseudo tecnico, cosa sottende? Mi gratto nervosamente un morso di zanzara, non si sa perché sono cambiate anche loro negli anni, ora sono affamate a qualsiasi ora del giorno e della notte, non solo in pianura o vicino all’acqua, e non c’è modo di acchiapparle perché volano in volettini difformi mutando rapidamente direzione. Sconsolata penso, sono cresciuta nel mezzo della pianura padana tra risaie afa e zanzare, e non so più difendermi.
Si schianta un furgone in cui viaggiavano, stipati come bestie pronte per il mattatoio, quelli che il servizio del telegiornale definisce “braccianti”, ne muoiono dodici, il giornalista cerca di intervistare un “caporale nero”. Quale lingua vuole celare la realtà? Possiamo davvero definirli braccianti, o piuttosto schiavi? E il caporale (nero, sottolinea il giornalista, lo sfruttamento viene dalla stessa parte, ma chi non lo farebbe potendo, di ascendere la scala sociale comprandosi la libertà ed un furgone con cui sfruttare gli altri, quando questo significa emanciparsi e poter smettere di fare la loro stessa non vita?). Il caporale, davvero questo è il termine più corretto? CaporaleKapò, arriva l’analogia. Come si destruttura il linguaggio per crearne uno nuovo ad uso del potere, una lingua fatta da, per e come coloro che se ne servono, estraniante e deformata?
Cosa aspettarsi dunque dal cosiddetto “decreto dignità” che promette l’esatto contrario di quello che prevede? Meglio non impantanarsi in pensieri autolesionisti. Fa male, ascoltiamo un po’ di musica.
E però. Neppure la radio è riconoscibile, la stessa radio che mi ha accompagnato negli anni dell’università mentre facevo le pulizie, a turno con le mie compagne di casa, con particolare attenzione alle scale condominiali perché la signora del piano di sotto lasciava sempre un pezzettino di carta un po’ nascosto, per vedere se noi studentesse davvero passavamo con cura scopa e spazzolone, mentre il marito no, lui era un signore davvero carino ed accorreva sempre in nostro aiuto per sanare piccoli e fastidiosi problemi, il lavandino intasato, il boiler dell’acqua calda bloccato…
D’accordo che ormai quell’epoca non si conta più in anni ma decenni, ma ho continuato ad ascoltare la stessa radio anche dopo, è stata la colonna sonora di faticosissimi anni di lavoro e dell’altrettanto faticoso e fallimentare tentativo di costruirmi una famiglia, non è poi molto che non ho più avuto occasione di frequentarla…eppure gli ultimi successi riecheggiano ciò che una voce giovane mi spiega chiamarsi trap, e siccome l’unica cosa che (forse) so fare è cercare di capire, vado subito a documentarmi, per scoprire che la mia associazione per assonanza trap-trash era sbagliata, non ha nulla a che fare, ma abbastanza spazzatura ahimè la trovo in questa povertà semantica e concettuale fatta di frasi fatte e luoghi comuni, nell’esasperato egocentrismo di testi che strizzano l’occhio a les fleurs du mal senza averne lo spessore lirico, l’aulicità, il surrealismo, la consistenza formale.
Victor Klemperer ha lucidamente analizzato la lingua tertii imperii, la lingua del Terzo Reich (Lti, la lingua del Terzo Reich. Taccuino di un filologo, Giuntina 1998), che poteva agevolmente autorizzare lo sterminio di stücke, pezzi, invece di uomini, avallando anzi così l’eliminazione del superfluo, perché di pezzi inutili, chi si curerebbe mai? La manipolazione linguistica, la sofisticazione del linguaggio ed insieme il suo impoverimento fatto di eufemismi, locuzioni gergali, prestiti da altre lingue stravolgendone il significato, tutto riporta alla lapidaria sentenza morettiana di Palombella rossa: chi parla male, pensa male – che poi anche viva male, poco importa.

Sara Valentina Di Palma