L’Italia e i migranti
Opinioni a confronto

L’Italia e l’accoglienza dei migranti. Il rispetto della legalità e dei diritti umani. Il futuro della democrazia e il crescente populismo. Temi che sono al centro del dibattito pubblico e sul quale da tempo si confrontano anche i nostri collaboratori. Arricchiscono l’intenso confronto gli interventi, che pubblichiamo oggi, del vicepresidente UCEI Giorgio Mortara, della storica Anna Foa e del professor David Sorani.

Il pericolo dell’indifferenza

Come uomo, come ebreo e come medico sono due gli obiettivi che ci dobbiamo porre difronte al problema dei migranti richiedenti asilo:
Primo: soccorrerli, accoglierli ed integrarli.
Secondo: migliorare le condizioni sociali, politiche ed economiche nei paesi da cui provengono in modo che possano vivere lì in pace serenità e giustizia.
Infatti, la Torah prescrive: “Non riconsegnare uno schiavo al suo padrone dopo che ha trovato riparo presso di te. Risiederà con te in mezzo a te nel luogo che si sarà scelto in una delle tue città dove si trova bene: non opprimerlo!” (Deut. 23, 16-17). “Se il tuo fratello impoverirà… lo dovrai sostenere: che sia straniero o residente, una volta che viva con te” (Lev. 25,35).
È evidente dalle ultime parole che il termine “fratello” iniziale deve avere un’accezione universale. D’altro lato, è noto che i Maestri del Talmud limitano l’obbligo di assistere gli altri a condizione che queste azioni non vadano a detrimento di noi stessi: “La vita di tuo fratello è con te’ (Lev. 25,36): significa che la tua vita precede quella di tuo fratello” (Bavà Metzi’à 62);
In pratica abbiamo l’obbligo di aiutare i rifugiati di altri popoli nella misura in cui ciò non contrasti con i nostri interessi vitali. Non possiamo respingere chi varca i nostri confini alla ricerca di salvezza, ma d’altronde non possiamo neppure pensare di farci carico di una quantità illimitata di rifugiati senza mettere a repentaglio il nostro già precario sistema economico. Il malessere di chi arriva da fuori è un punto sensibile della coscienza morale ebraica, sollecitati come siamo dalla nostra stessa esperienza storica.
Nella Torah è scritto una sola volta “ama il tuo prossimo come te stesso” e 36 volte “Non opprimere lo straniero: voi infatti conoscete l’animo dello straniero, perché foste stranieri in terra d’Egitto”.
Rav Sacks a proposito del dramma dei rifugiati e dei migranti ha detto: “Ho a lungo pensato che il passo più importante della Bibbia fosse ‘ama il prossimo tuo come te stesso’, poi ho capito che è facile amare chi ti sta vicino perché di solito è simile a te”.
Ciò che è difficile è amare lo straniero uno che ha colore, cultura e credo diversi dal tuo. Ecco perché il comando “ama lo straniero perché anche tu lo fosti” è ripetuto tante volte nella Bibbia.
Fatti gravissimi, come quelli che accadono da anni nel Mediterraneo e alle frontiere dell’Europa, richiamano le nostre coscienze sul divieto di stare inerti dinanzi al sangue del nostro prossimo (Lev. 19, 16). Molti precetti della Torah sono ispirati ad analogo principio, come quello di predisporre un parapetto al tetto affinché nessuno metta in pericolo la propria vita e quella altrui (Deut. 22,8).
Oltre che a salvare chi è in pericolo di vita e di ospitare chi fugge da guerre, pestilenze carestie e schiavitù abbiamo l’obbligo di aiutare il prossimo a rifarsi una vita nelle sue terre (“D. ha udito la voce del fanciullo – Ismaele – lì dove si trova”: Gen. 21,17). Nel nostro caso tocca alla comunità internazionale, a cominciare dall’Europa, muoversi per evitare che si ripetano queste immani tragedie, le cui vere cause sono da ricercarsi probabilmente in tempi e luoghi molto lontani da quello che è stato l’effettivo teatro di un così drammatico e raccapricciante ultimo atto. Deve seguire dunque un impegno condiviso da parte di tutti coloro che ne hanno la facoltà materiale di aiutare le popolazioni più deboli a trovare dignità e benessere, prima di essere costrette a migrare o peggio a fuggire per perseguire un miglioramento delle proprie condizioni di vita sia materiali che di libertà individuale che collettiva.
Le popolazioni più sviluppate devono provvedere a contenere il gap rispetto a quelle meno fortunate, fornendo loro non solo aiuti economici, ma anche i mezzi per la diffusione della cultura, che la tecnologia più avanzata mette a disposizione a basso costo in abbondanza.
Comprendo la difficoltà di realizzare tali obiettivi ma diverse organizzazioni si stanno impegnando in tal senso e noi ci dobbiamo impegnare in prima persona a sostenerle come uomini liberi e soprattutto come ebrei perché non possiamo restare indifferenti davanti a questi drammi.

Giorgio Mortara, vicepresidente UCEI

Il nostro dovere di ebrei

In questo paese ci sono ebrei che credono che occuparsi delle sorti della democrazia nel nostro paese non sia compito degli ebrei. Che tra la messa in discussione dei valori democratici e la possibilità della crescita dell’antisemitismo e del razzismo non ci siano rapporti. Il fatto che Hitler abbia emanato le prime leggi antisemite subito dopo aver preso il potere, e che l’Italia del 1938 non fosse un paese democratico ma un paese sottoposto ad una dittatura non li spinge a nessuna riflessione. In realtà, per loro, fino a che gli ebrei non saranno toccati, perché occuparsi di dittature e di democrazia? Sono uguali a coloro che nel 1938 restarono molto stupiti dal fatto che il fascismo, a cui avevano aderito senza remore, ora colpisse proprio loro.

Anna Foa, storica

Pietà l’è morta

Viene alla mente il titolo del celebre canto partigiano di Nuto Revelli pensando all’orrendo spettacolo offerto dal governo italiano nel caso della nave “Diciotti”. Non si sa se rimanere più colpiti dal cinismo o dall’ottusità di un ministro, Vicepresidente del Consiglio e di fatto anima politica dell’esecutivo, che per incrementare populistici consensi alla sua figura sceglie contemporaneamente di cancellare ogni considerazione umanitaria e di porsi fuori dalla dialettica degli Stati europei. Negli ultimi giorni abbiamo davvero dovuto vergognarci di essere rappresentati da un tale ministro degli interni. Ma la questione non si esaurisce certo nel caso personale. L’intero governo è di fatto incapace di costruire un progetto politico e sociale sul tema oggi ineludibile dell’immigrazione, limitandosi a sollevare rabbiose proteste e a minacciare ritorsioni autolesionistiche rispetto al certo condannabile “non cale” dell’Unione Europea. Proteste e minacce che, inutili a risolvere il problema europeo e italiano, hanno in realtà un unico obiettivo: raccogliere consensi immediati, secondo un ormai rodato schema sovranista.
E ciò che inquieta maggiormente rispetto al presente e al futuro è l’incremento dell’approvazione popolare di fronte alle scelte governative. Un clima di egoismo crescente, un incattivirsi collettivo sembra diffondersi nella nostra società. Gli interventi di protesta non mancano, per fortuna; ma i sondaggi rivelano la persistenza di un appoggio ormai consolidato per Lega e Cinquestelle: anzi, i sostenitori di Salvini paiono in forte aumento. Da un lato, tutto ciò ha una sua logica: la demagogia allo stato puro raggiunge il suo obiettivo. Dall’altro, emerge un’amarezza disorientata davanti al sempre più diffuso rinchiudersi nel proprio particulare; pietà l’è morta, appunto.
Rispetto a una situazione così deprimente, gli ebrei – come ogni altra minoranza civile del Paese – hanno il dovere di non restare passivi, rintanati nella propria condizione di “specie protetta”. Anzi, proprio in nome del valore fondante che ha per l’ebraismo l’accettazione dello “straniero” (Vaikrà, 19, 33-34 e molti altri passi), occorre che noi ebrei siamo i primi a rinnegare l’indifferenza, la chiusura, il rifiuto che paiono essere la linea scelta da questo esecutivo. Il vento malsano del populismo, che investe ora i profughi diseredati ma che già vuole scuotere le banche e i “poteri forti” e già vuole far vacillare le “élites”, rischia di colpire da vicino anche gli ebrei, archetipo dell’elemento estraneo alla “comunità di popolo” (Volksgemeinde, per il nazismo). Ma non possono essere solo i rischi reali e diretti sul nostro futuro a svegliarci. Sono i principi della giustizia, del patto di convivenza, della solidarietà tra “diversi” – assi portanti della concezione ebraica del mondo – a doverci guidare verso un’opposizione coerente.

David Sorani

Il raglio di furore

Alcune considerazioni, in attesa che il declino dell’estate apra a nuove prospettive, partendo dai temi che affolleranno la comunicazione pubblica. In ordine di successione:
1) si sta ampliando lo spazio del sovranismo, quella posizione politica che ritiene che le risposte ai problemi delle nostre società vadano cercati nella riaffermazione della sovranità nazionale come principio esclusivo ed insindacabile;
2) il sovranismo non è solo il vecchio nazionalismo sotto nuove spoglie ma una visione, non importa quanto coerente o applicabile, del rapporto tra territori, collettività e diritti: la fruizione di questi ultimi è vincolata dall’appartenenza ad una collettività definita essenzialmente in base alla sua collocazione spaziale;
3) il sovranismo può anche avere in certi casi connotazioni razzistiche ma non opera distinzioni di principio sugli esseri umani se non in base al fatto che essi siano parte stabile (inversamente: non lo siano) del territorio sul quale intende esercitare la sua sovranità d’imperio;
4) come tale, ritiene che i diritti universali non esistano, se non come vuote declamazioni formalistiche; semmai ristabilisce il rapporto diretto, ossia immediato, tra “suolo”, “identità” e norme: se non appartieni ad un certo territorio (per origine o per acquisizione, ma in questo secondo caso poiché hai la capacità economica di “acquistare” l’origine che – altrimenti – continuerai a non avere) non potrai mai godere di tutele umanitarie, e ancor meno di diritti sociali, civili e politici;
5) il sovranismo subentra alla crisi irreversibile sia delle democrazie sociali, e quindi dei sistemi di redistribuzione della ricchezza socialmente prodotta, sia di quelle liberaldemocratiche; è un tentativo di dare una risposta alla caduta di alcuni confini fisici, materiali ma anche simbolici e culturali nell’età della globalizzazione; risponde soprattutto all’angoscia da affogamento nell’indistinto, come per la paura dell’indifferenza altrui per il proprio destino, che accompagna molte persone dinanzi ai mutamenti dei sistemi economici e sociali;
6) la forza motrice del sovranismo è il richiamo ad una comune appartenenza, legata all’esperienza quotidiana dello spazio e del territorio condiviso; tutto il resto è irriso come mera professione intellettualistica, astratto esercizio per “anime belle”, spiriti compiaciuti di non doversi confrontare con la durezza delle vita quotidiana o, peggio ancora, parte di quelle aborrite élite che sono indistintamente indicate come responsabili dei mali peggiori, a danno della collettività;
7) lo spazio del sovranismo non è solo nazionale ma anche internazionale: quando quella creatura stanca che è l’Unione europea avrà esaurito le funzioni che le sono state attribuite fino ad oggi (o che si è assicurata, a prescindere dai risultati così ottenuti), sarà definitivamente ora di un nuovo equilibrio europeo; i sovranisti più scaltri guardano a questo orizzonte, sapendo che la partita che si sta giocando solo in parte si esaurirà nel breve periodo, avendo semmai a che fare con le relazioni internazionali a venire;
sempre più spesso, e non a caso, a rivestire il ruolo di politici ispirati al sovranismo sono donne e uomini relativamente giovani rispetto alla media generazionale della consolidata politica tradizionale: il passaggio è frequentemente legato al differenziale di età, laddove le trasformazioni più significative, anche nelle esperienze del passato, non sono state fatte dai conservatori bensì da nuove leadership modernizzanti, composte da classi anagrafiche che rivendicano spazio (altrimenti non concessogli) e che del mancato rispetto dei principi delle vecchie culture politiche (liberali, socialdemocratiche, laburiste ma anche conservatrici), traggono giovamento per raffigurarsi come l’”inedito che avanza”. Non a caso i sovranisti vivono il proprio ruolo come quello di veri e propri soggetti del “cambiamento” radicale;
9) valutare i fenomeni politici, quale lo stesso sovranismo è, in termini puramente morali (in genere per denunciarne la vera o presunta immoralità di fondo) è quanto di più impolitico si possa fare; se non altro perché al pari di molti altri fenomeni politici complessi, anche il sovranismo si dà una sua morale (“prima quelli come noi” e quanto da ciò può derivare) che si convalida da sé, senza attendere il giudizio altrui;
10) peraltro in un’ottica di tale genere, il sovranismo, e tutto ciò che si lega ad esso, aspira ad essere non solo quel che già è in se stesso, ossia un fenomeno politico composito, ma anche ad inglobare in sé maggioranza e opposizione; si presenta come un fenomeno totale, che somma al suo interno tesi, antitesi e sintesi; oggi, pertanto, in Europa non è che manchino le “opposizioni” politiche: più semplicemente, va drammaticamente rarefacendosi qualsiasi spazio per qualsivoglia opposizione organizzata, tale in quanto intenda essere qualcosa di più di un semplice atto di testimonianza;
11) denunciare o rifiutare sovranismi e populismi rifacendosi esclusivamente ai trascorsi storici (a partire dai fascismi) non solo rischia di rivelarsi inefficace ma, paradossalmente, può ancora di più accreditare ciò che si vorrebbe invece screditare, nel mentre lo si addita al pubblico ludibrio come manifestazione di intolleranza; poiché tutto questo avviene quando quel medesimo pubblico chiede, addirittura rivendica, espressioni di non tolleranza verso ciò (e chi) identifica come un fattore di alterazione dell’ordine costituito. L’intolleranza è un grave peccato per certuni ma una facoltà di autodifesa per altri.
Questo ed altro ancora per dire che se un ciclo storico (esordito nel 1945 ma in via di erosione già da almeno tre decenni) va verso la sua definitiva conclusione, qualcosa d’altro sta subentrando. Lo potremo meglio valutare quando avrà prodotto i suoi effetti. Ben sapendo, come diceva un proverbiale John Maynard Keynes, che «sul lungo periodo saremo tutti morti».

Claudio Vercelli

Minacce e arancini

Un Ministro degli Interni che nel giro di 24 ore si mostra sprezzante con il Presidente della Camera e con la magistratura (quasi un caso da manuale per spiegare agli allievi a cosa dovrebbe servire la divisione tra i tre poteri) è francamente piuttosto inquietante, e non meno inquietante è il post minaccioso contro la magistratura da parte di un deputato leghista: “se toccate il Capitano vi veniamo a prendere sotto casa… occhio!”. Ma forse la cosa più inquietante di tutte è che ci stiamo abituando, e che questo genere di notizie quasi non fa più notizia. Anzi, la continua sfida alle regole del gioco democratico è vista spesso positivamente, come ribellione verso i “poteri forti”. Tanto che viene il dubbio che la vicenda della nave Diciotti abbia un valore più simbolico che reale. Non so se la mia impressione sia falsata da una lettura estiva delle notizie forse un po’ incompleta, ma negli ultimi giorni non mi pare di aver sentito parlare di pericoli legati al terrorismo o al fondamentalismo (pericoli reali, che hanno realmente insanguinato l’Europa negli ultimi anni), o magari alle difficoltà di una società multiculturale (che certamente si possono superare ma comunque non sono immaginarie); e mi sembra che persino i discorsi sull’impossibilità di assorbire gli immigrati nel mercato del lavoro tendano ultimamente a diminuire. Basta dire che i migranti sono clandestini e non serve dire altro, come se questo dato fosse sufficiente in sé a dimostrare che si tratta di un pericolo o di un danno. Ma se in fin dei conti nella vicenda della nave Diciotti o in altre analoghe la molla principale sembra essere una questione di principio, puramente simbolica, credo sia giusto dare risposte simboliche, come quella degli arancini, che non hanno raggiunto la nave (e chissà come sarebbero stati accolti, dato che, se preparati secondo la ricetta tradizionale, contengono carne di maiale), ma hanno avuto un’indubbia visibilità mediatica come simbolo di accoglienza.
Minacce o arancini? Quale dei due si rivelerà il simbolo più adatto a rappresentare l’Italia di domani?

Anna Segre, insegnante

Italiani brava gente?

Siamo ancora «brava gente»?, si chiede Giuseppe De Rita in un editoriale sul Corriere (7 agosto). La tensione sui profughi sta cambiando il nostro carattere? Nell’Italia che nei giorni bollenti dell’estate lascia per giorni al largo dei porti barche cariche di neonati e donne partorienti, dobbiamo rassegnarci alla supremazia di un egoistico rifiuto degli «altri da noi» («prima gli italiani»)? Il tema ci interessa, per ovvie ragioni. Non si sa mai, potremmo sempre avere bisogno di quel carattere «bonario e accomodante che ci ha fatto compagnia per secoli», cui si riferisce De Rita appoggiandosi a un famoso saggio di Giulio Bollati troppo spesso dimenticato da chi s’interroga sui percorsi biografici dei Giusti. Quello del «bravo italiano» è un problema intrinseco alla Shoah in Italia, ma rimane un mito. Studiare a fondo, nei suoi risvolti più profondi, il carattere nazionale invece può aiutarci a comprendere perché tanti Salvati ieri (e, forse, perché così pochi Salvati oggi). De Rita riscontra una frattura rispetto alla società benevolente che si leggeva in filigrana nella struttura dei Promessi sposi, fonte alla quale s‘era appellato Bollati, ma anche Primo Levi nel suo confronto tra italiani e tedeschi (difendendo la bontà dei primi). Certo, anche il fronte dei Buoni ha le sue macchie, che hanno facilitato il recente trionfo politico degli Egoisti. Troppo isolati e poco ascoltati sono i dissenzienti. Ticketless si era già occupato di uno di loro, Luca Rastello, e del suo saggio I buoni uscito nel 2013, quando era difficile prevedere la catastrofe elettorale del 2018. Converrà adesso rileggerlo quel libro e meditarci sopra. In questi giorni, lo stesso editore (Chiarelettere) manda in libreria, curato dalla moglie Monica Bardi, il romanzo postumo di Luca (Dopodomani non ci sarà), una critica spietata sulla condizione del malato nell’Italia odierna. Tre anni fa, dopo una lunga malattia Luca ci ha lasciato. Non è questa una lettura consigliabile a chi sia passato o stia passando dentro dolori e separazioni così terribili. Avevo conosciuto Luca, giovanissimo, in quella straordinaria fucina di menti libere ed eretiche che era la redazione milanese di Linea d’ombra. A costo di apparire retorico vorrei qui ricordarlo come un esempio di quegli uomini, semplicemente uomini, normali, che nel tempo hanno imparato a non cercare più alte identità ma hanno denunciato il male anche quando s’annida nel bene. Ricordare il loro lavoro invita a non disperare nel futuro. Non praevalebunt.

Alberto Cavaglion

L’esempio di Riace

Riace, oltre che per gli splendidi bronzi, sta diventando un modello di convivenza famoso in tutto il mondo. Ammirato in tutto il mondo fuorché in Italia.
Nel 1998, sulla costa ionica calabrese sono sbarcate ottocento persone, immigrati dall’Afghanistan e dall’Iraq, e il borgo ormai fantasma di Riace ha cominciato a risvegliarsi alla vita. Riace ha deciso per l’accoglienza e non per il campo profughi o per il ghetto. Così, attività morte da anni hanno riaperto. Hanno riaperto case, scuole, negozi, ristoranti. Si sono riaperti all’uso e alla vita un centinaio di appartamenti, sono stati avviati corsi di lingua italiana per gli immigrati, grazie ai quali tanti insegnanti hanno trovato lavoro. Insomma, l’economia si è rimessa in moto, e a Riace è tornata la vita, ma soprattutto la speranza.
Il sindaco illuminato di Riace, Domenico Lucano, già a capo dell’associazione Città Futura, dedicata a don Giuseppe Puglisi, è stato inserito da Fortune Magazine fra i cinquanta leader più influenti del mondo. Ma in Italia non se ne parla molto, anzi, se ne parla il meno possibile. Si ha infatti la strana sensazione che, per la politica dell’esclusione e del respingimento, Riace non sia un modello da proporre e da propagandare. Riace è un esempio pericoloso. Il comune calabrese comincia allora ad avere le prime pesanti difficoltà. I fondi europei destinati ai progetti di accoglienza dei migranti vengono bloccati dal ministero e dalla prefettura; per protesta il sindaco inizia lo sciopero della fame. Nel mondo si avvia una raccolta fondi per non far morire l’iniziativa.
C’è chi vede in Riace un esempio pericolosissimo di accoglienza e di integrazione che qualche altro borgo morente in Italia potrebbe essere tentato di imitare. E scegliere l’accoglienza contro il respingimento, l’inclusione contro l’esclusione, la vita contro la morte, è un messaggio che proprio non si gradisce in questi giorni, in Italia. Non è nelle corde di chi governa. Così di fronte a Riace si chiudono gli occhi, meno se ne parla meglio è.
Ora, del progetto si sta occupando anche la Procura di Locri, per indagare su presunte irregolarità amministrative e su conflitti di interesse. La giustizia, ovviamente, deve fare il suo corso, e se irregolarità ci sono state nella gestione di appalti e assegnazioni queste vanno perseguite. La legge va rispettata da tutti, e i fondi pubblici dovrebbero essere usati con correttezza e trasparenza da tutti; ci si aspetterebbe tuttavia che a rispettarla fossero grandi e piccini, istituzioni di governo non meno di quelle comunali. La legge non è fatta solo per i vasi di vetro e di terracotta.
Riace, alla fine, è in dissesto finanziario. Molti sindaci, fra i quali quello di Ginevra si sono schierati a fianco del sindaco di Riace perché il ‘modello Riace’ non muoia.
Nel nostro piccolo, ammirati dall’esperimento calabrese – che sarebbe bello non fosse un caso isolato assurto ad emblema – auspichiamo che Riace non muoia e con esso, magari, i mille borghi abbandonati in giro per il nostro paese, per affermare il valore della solidarietà, e perché prevalga l’umanità sulla disumanità.
Perché “ho posto di fronte a te la vita e la morte, la benedizione e la maledizione, e sceglierai la vita” (Devarim 30:19).
Qualcuno sospetterà, spaventato, che si mettano a rischio identità particolari. Qualcuno sospetterà che la globalizzazione culturale disgreghi specifici legami sociali. Ma una classe di governo che si rispetti saprà conciliare la diversità delle identità culturali con lo spirito della coesistenza e della convivenza. Nell’epoca vittoriana la si chiamava ‘separateness and communication’. Siamo nel Duemila, se vogliamo illuderci di star costruendo il progresso e non il regresso dovremmo saper fare anche qualcosa di più.

Dario Calimani, Università di Venezia

La paura del diverso

“La paura in Occidente” (il Saggiatore) di Jean Delumeau, pubblicato nel 1978 e tornato in libreria in queste settimane, è ancora un libro «fresco». È la paura (dell’eretico, dell’ebreo, del diverso…) ad aver impresso il volto all’Europa così come la viviamo oggi. La paura non è solo ricerca di sicurezze, ma anche, è parte essenziale della macchina generativa del potere, della legittimazione dell’uso della forza e dell’esercizio della violenza.

David Bidussa, storico sociale delle idee

Diritti umani, una lezione ebraica

Uno dei dibattiti più rivelatori nella storia ebraica a proposito di diritti umani si è manifestato in uno scambio di lettere fra Hanna Arendt e Gershom Scholem nell’estate del 1963 alla vigilia della pubblicazione del testo della Arendt su Eichmann. Scholem accusava la Arendt di indifferenza verso il suo popolo: “Nella tradizione ebraica c’è un concetto che è difficile da definire eppure piuttosto concreto che chiamiamo ‘ahavat yisrael’, cioè amore del popolo d’Israele. In te, così come in molti intellettuali provenienti dalla sinistra tedesca, non ne trovo traccia”. Hanna Arendt rispondeva con altrettanta chiarezza: “In effetti hai ragione, non sono mossa da alcun ‘amore’ di questo tipo. Nella mia vita non ho mai ‘amato’ un popolo o una collettività. Né il popolo tedesco, né quello francese né quello americano, né la classe lavoratrice né altre categorie del genere. In effetti ‘amo’ solo i miei amici e l’unico tipo di amore che conosco e in cui credo è l’amore per le persone”. Si trattava all’epoca – come sottolinea James Loeffler in un recente libro (Rooted cosmopolitans. Jews and Human Rights in the Twentieth Century, Yale University Press 2018) – dell’ennesima espressione di conflitto fra il particolarismo e l’universalismo. Nelle parole della Arendt l’identità di gruppo (nazionale) rende vana l’utopia di un’etica universale. Il problema è che né Scholem né la Arendt furono mai dei rappresentanti manichei delle posizioni così dure che leggiamo nel loro scambio epistolare. Scholem aveva criticato con forza gli eccessi sciovinisti del sionismo e gli errori morali che questo atteggiamento aveva prodotto. E Hanna Arendt aveva più volte sostenuto il legame essenziale fra le radici e i diritti. Nel 1942 scriveva fra l’altro: “La giustizia per un popolo può significare solamente giustizia nazionale. Uno dei diritti umani inalienabili degli ebrei è il diritto di vivere e se necessario di morire da ebrei.” A ben vedere oggi il dibattito non è poi così diverso. Il duro confronto sul suprematismo nazionale e sulla salvaguardia dei diritti umani è all’ordine del giorno in Europa come in Israele come pure negli Stati Uniti. Di certo si tratta di un dibattito di fronte al quale siamo tutti chiamati ad esprimerci, onorando la memoria e studiando le opere di Hersch Zvi Lauterpacht, ebreo galiziano sionista della prima ora (cioè nazionalista) che di fronte alle persecuzioni del popolo ebraico subite nel novembre del 1918 a Lemberg/Lvov/Lviv (150 civili massacrati dalle truppe polacche) prese la strada dello studio dei diritti umani. Fu il primo a definirli dal punto di vista giuridico e a lui si debbono le riflessioni più profonde nel merito. Un diritto universale, elaborato da un convinto fautore del diritto a un particolarismo nazionale.

Gadi Luzzatto Voghera, direttore Fondazione CDEC

La grande contraddizione

La politica salviniana sulla questione migranti mi pare si delinii con sempre maggiore chiarezza. La grande contraddizione, da più parti indicata, di fare alleanza col gruppo di Visegrad, che ha sempre rappresentato l’ostacolo più duro ad ogni progetto di ridistribuzione dei profughi, si sana sviluppando una politica comune di respingimento europeo. In pratica, si danno soldi all’Italia perché impegni le sue navi militari per i respingimenti in mare. Data l’impossibilità di risolvere i problemi dell’intero continente africano in pochi giorni, o di costruire chissà quali hotspot in Libia, mi pare l’unica strada percorribile. È probabile che già al vertice europeo di fine giugno si avanzi una proposta comune fra i vari governi di estrema destra europei. E la cosa brutta è che passerà. Lo sappiamo tutti, se Orban ha potuto costruire muri è perché la Germania e gli altri Paesi del Nord traevano vantaggio dal blocco della rotta balcanica. Non parliamo poi del comportamento francese di questi anni, giustificabile solo dalla paranoia sociale innescata da una serie di attentati terroristici senza precedenti. Insomma, la pagina è bianca per scrivere un altro triste racconto della storia europea.

Davide Assael, ricercatore

Toni pericolosi

Manganellatori da tastiera (per ora da pc, e speriamo che tali restiate) ebrei e non ebrei, ma vi rendete conto dell’odio che trasuda dai vostri post e commenti? Che si parli di Israele, di migranti, di Salvini o di Netanyahu, di PD o di Rivlin riuscite a dire le cose più spregevoli, offensive e spesso false su chi non la pensa come voi. Certi di avere sempre e comunque ragione, date sfogo a quella rabbia plebea e revanchista (non popolare, che invece è sacrosanta) riversata a piene mani contro chi definite con disprezzo intellettuali. Come se fosse auspicabile un mondo governato dalla ignoranza arrogante e portatrice per antonomasia di pregiudizio e razzismo. Inutile chiedere se la storia non vi ha insegnato qualcosa. No, non vi ha insegnato niente. E il solo augurio/preghiera che posso rivolgere a non so chi è che non dobbiate pentirvene. Perché insieme a voi la pagheremmo cara anche noi, che dell’ingiuria e del “cattivismo” siamo acerrimi eppure non violenti nemici.

Stefano Jesurum, giornalista

Germania, nel bene e nel male

La lettura dei giornali è un rituale che in vacanza va celebrato lentamente. Si scoprono piccole notizie nascoste, si leggono lunghe inchieste da paesi esotici. Negli ultimi tre giorni, mi colpiscono due articoli dalla Germania, nel bene o nel male cuore d’Europa: prima, una lunga inchiesta sui “centri di ancoraggio”, strutture progettate dal governo bavarese ma in qualche modo approvate dal governo federale. Vi si tengono i richiedenti asilo in attesa di rimpatrio, per tempi indefiniti e senza alcuna attività: devono essere espulsi, perché mai tenerli occupati? Si trovano in zone industriali abbandonate, lontane dai centri urbani, perché reti metalliche e fili spinati, con tanto di sicurezza privata, a pochi chilometri dalle più ricche città tedesche, beh è comunque una scena che in Germania fa ancora qualche effetto. Con esseri umani che rimangono magari bloccati per anni. In ogni caso l’impressione non deve essere così terribile, se è vera anche la seconda notiziola: il governo federale dimezza il contributo statale per i sopravvissuti alla Shoah che entrano in casa di riposo, probabilmente sovvenzionata con altri strumenti di welfare. Una misura di buonsenso, si direbbe, un razionalizzare le spese che rende a noi italiani così invidiabile il sistema tedesco. Eppure, chissà perché, anche una nota stonata. Qualcosa che ci racconta, tra le pieghe asettiche della burocrazia impeccabile, di un vento che sta cambiando, e che sembra spirare in direzione contraria al Dopoguerra che abbiamo conosciuto.

Tobia Zevi, Associazione Hans Jonas

Sulle rotte dei migranti

Ancora una volta mi ritrovo sulle rotte dei migranti, questa volta alla frontiera nord tra Bosnia e Croazia. In una zona già profondamente martoriata dalle guerre dei Balcani, ma che non per questo ha perso la solidarietà e l’accoglienza verso il prossimo. Per quale ragione? Soprattutto perché voglio comprendere le motivazioni dell’esodo di migliaia di persone dalla propria terra d’origine, conoscere le loro idee, anche alla luce del supposto aumento di casi di antisemitismo in Germania. Non mancheranno quindi forse neppure qui gli individui che un giorno potrebbero commettere qualcosa di sbagliato o che non hanno la coscienza a posto, e come ripetono tutti continuamente questi sono un pericolo in primis per gli altri. Ma ciò che intanto riesco a vedere è un’umanità profondamente eterogenea: dai cristiani dell’Iran o del Pakistan, ai curdi che scappano per ragioni politiche, ai Sikh che sognano di guidare un bus a Roma, ai siriani che fuggono da Damasco, o agli africani che ormai hanno abbandonato l’attraversamento del Mediteranneo perché troppo rischioso. Etnie e religioni diverse che nonostante tutto convivono in questa precarietà così lontana da quella “pacchia” e quelle “crociere” che molti dei nostri concittadini immaginano.

Francesco Moises Bassano

I cuochi della politica

Nel “Gorgia” Platone distingue tra due tipi di governante, il politico cuoco e il politico medico, e li mette a confronto inscenando una causa giudiziaria. “Rischierò d’esser giudicato come sarebbe giudicato da un gruppo di ragazzi un medico accusato da un cuoco”, afferma Socrate nel dialogo. Parla il cuoco: “Ragazzi, quanto male costui ha fatto anche a voi; anche i più piccoli egli corrompe con il ferro e col fuoco; li angoscia facendoli dimagrire e soffocandoli, li obbliga a prendere amarissime bevande, fa patire loro la fame e la sete; né certo vi tratta come facevo io, che per voi preparavo svariati e saporiti piatti”. Risponde il medico: “Ragazzi, tutto quello che ho fatto, l’ho fatto per la vostra salute”. I giudici-ragazzi, secondo Platone, finirebbero inevitabilmente per condannare il medico, confermando l’accusa con “grida” e “enorme baccano”. I giudici, o se si preferisce il popolo che ha diritto di voto, se lasciati a se stessi premieranno chi offre succulenti manicaretti (come possono essere per esempio flat tax, blocco dell’immigrazione, reddito di cittadinanza, ipotesi antieuropeiste più o meno fantasiose e suicide) e non chi si pone l’obiettivo di curare i mali della città e dello stato. I cuochi della politica, da parte loro, offriranno piatti allettanti per essere preferiti dal popolo ma, al contempo, anche per mantenere questo in condizione di sudditanza e immaturità.

Giorgio Berruto

Un mondo senza futuro?

Fino a pochi anni fa eravamo convinti, almeno a livello inconscio, delle magnifiche sorti e progressive dell’umanità. Il progresso tecnologico avrebbe portato democrazia e sviluppo, la globalizzazione avrebbe risolto i problemi del Terzo Mondo, la robotica ci avrebbe liberato dai lavori più pericolosi e pesanti.
I nostri figli sarebbero stati più felici di noi, come ogni genitore si è sempre augurato.
Siamo ora in un periodo senza prospettive per il futuro. Nessuno ci propone un mondo migliore, né a destra ma nemmeno a sinistra. Dittatori democraticamente eletti si sono assicurati di rimanere al potere vita natural durante, e ogni giorno più ossessionati dalla paura di perdere il controllo, aboliscono ogni barlume di libertà e pensiero critico: Russia, Turchia, Cina, per non parlare della Corea e del Medio Oriente, dove persino quel faro di libertà che era Israele sta diventando retaggio di una destra autoritaria.
Ma anche nella nostra parte di mondo, dove ancora si possono esprimere le proprie opinioni senza andare in galera o essere avvelenati, e le elezioni sono manipolate grazie al crescente potere del web e dei social che condizionano il pensiero della massa con mezzi tanto più pericolosi in quanto oscuri ed eterodiretti, come sta emergendo nell’inchiesta sulle elezioni americane.
Il dramma di questo periodo è che non abbiamo nessuna speranza di un futuro migliore. Non ci sono né idee né ideali, se non quelli negativi di un protezionismo che vede l’Altro, ogni altro, come un nemico. In Italia la mediocrità farcita di orgogliosa ignoranza dei 5Stelle e il razzismo muscolare della Lega non hanno una qualsivoglia alternativa, né a destra né a sinistra. L’Europa si sta sfaldando. L’Inghilterra è ripiegata su stessa e muta sulle questioni internazionali. L’America si sta pericolosamente radicalizzando non solo a destra, ma anche a sinistra. Le recenti primarie hanno espresso come rappresentanti del partito democratico un/a transgender, una portoricana afroamericana e una musulmana: ottimo esempio di integrazione e di affermazione femminile, si potrebbe pensare, ma la maggioranza silenziosa e moderata degli americani si sentirà rappresentata? O voterà Trump turandosi il naso?
Quello che mi colpisce è la mancanza di progettualità nei giovani. Come se sentissero che non c’è futuro, e allora tanto vale tirare a campare, magari con il reddito di cittadinanza. Non si sposano, perché non credono più nel modello della famiglia tradizionale, ma non hanno ancora modelli sostitutivi. Chi ha qualche piccolo privilegio lo difende a oltranza, perché non spera in nulla di meglio.
E politica e media sembrano non avere nulla da proporre, se non criticare ferocemente gli avversari. Lo abbiamo visto in Italia con Berlusconi, oggetto per anni di costanti campagne denigratorie che ne hanno fatto un eroe negativo, corroborando paradossalmente la sua fama e il suo potere, in un mondo mediatico dove ciò che conta è essere presenti. Sta succedendo lo stesso con Trump. La stampa democratica americana quotidianamente dedica pagine e pagine alle sue malefatte, invece che tentare di costruire una alternativa, di identificare un possibile contendente e dargli notorietà. Chi sono le star future del partito democratico? L’anziano Bernie Sanders, cresciuto nel mondo della guerra fredda?
E in Italia, tramontato il sole di Renzi, su chi puntiamo per costruire una alternativa seria? Perché non si dà spazio a voci nuove, a qualcuno che ha qualcosa di interessante da proporre, ma ci si limita al tiro al bersaglio contro ciò che non piace?
C’è solo da sperare che si tratti una fase di transizione verso nuove forme di cultura, di economia, di politica, e che dallo scardinamento dei nostri valori nasca un mondo migliore che ancora non riusciamo a intravvedere.

Viviana Kasam