Machshevet Israel – Martin Buber, filosofo inattuale. O forse no

massimo giulianiVenerato da alcuni come il maggior filosofo ebreo del XX secolo, bistrattato o peggio da altri (che spesso non ne hanno mai letto una riga), Martin Buber resta sempre tra noi: le sue maggiori opere vengono ripubblicate; scritti minori vengono tradotti per la prima volta; si continuano a dare tesi di laurea su di lui, pur nel dubbio che tutto quel che si poteva dire su Buber sia già stato detto. Eppure l’opera di questo prolifico autore pesa, non solo in se stessa e indipendentemente dal giudizio che ne diamo, ma pesa anche (soprattutto?) per la storia dei suoi effetti, per l’impatto che ha avuto dentro e fuori (soprattutto!) l’ambito ebraico. Uno dei giudizi più duri nei suoi confronti lo ha espresso, più volte, il filosofo e rabbino americano Richard Rubenstein shlità. Conobbi di persona Rubenstein alla fine degli anni Novanta, a Washington: per un breve periodo restammo in più che amichevoli contatti, ma non condividevo le sue diagnosi politiche sull’Europa in procinto di diventare Eurabia (avendo lui abbracciato le tesi di Gisèle Littman, in arte Bat Ye’or). Nonostante la mia grande stima per questo decano dei pensatori della Shoà, i nostri contatti finirono. A Buber Rubenstein non fa sconti, sebbene premetta, a mo’ di attenuante, che non sempre i protagonisti di un’epoca di crisi sono anche i suoi migliori interpreti. Che Buber, di origini polacche, nato a Vienna nel 1878 e morto a Gerusalemme nel 1965, sia stato un testimone e un protagonista a tutto tondo delle maggiori vicende del giudaismo nel secolo breve, è un fatto incontestabile; su come le abbia (o meno) interpretate, si apre il fuoco delle critiche.
In sostanza Rubenstein dice che Buber è stato incapace di capire i due eventi fondamentali della storia ebraica del Novecento: la Shoà e lo Stato di Israele. Per un filosofo ebreo di lingua e cultura tedesca, di casa in Germania, e per un sionista della primissima ora – che convinse negli anni Venti così tanti intellettuali a fare aliyà – è una doppia fucilata. In effetti Buber non ha mai riflettuto a fondo sulla tragedia della Shoà riconoscendola come un problema filosofico e teologico, non ha mai scritto veramente nulla di importante su quegli eventi che trasformarono radicalmente l’autocoscienza ebraica contemporanea, non solo in Europa. È vero, ha lanciato la metafora dell’“eclissi di Dio”, ma con tale immagine Buber dà conto del fenomeno della secolarizzazione, della perdita del senso della trascendenza nelle società moderne, non del silenzio divino dinanzi al massacro del popolo ebraico. Quanto al suo sionismo (salì in terra di Israele nel 1938), si sa che la sua posizione politica per uno stato bi-nazionale ebraico-arabo lo isolò da subito dentro la leadership, pur ashkenazita, del nascente Stato di Israele e lo rese mero simbolo di un giudaismo utopico del tutto impraticabile. Sul caso Adolf Eichmann, nel 1961, si espresse contro la sentenza di morte perché considerava illegittimo un processo gestito da un tribunale di parte e non da una corte internazionale. Infine, sebbene molto letto in ambienti cristiani, neppure le sue analisi sulla fede ebraica come emunà e sulla fede cristiana come pistis erano poi così adeguate e incisive. La causa di questa sfasatura, a giudizio di Richard Rubenstein, sta nella sua incapacità di pensare le dinamiche del potere e della dignità che autonomia e forza offrono: la sua idealizzazione del rapporto Io-Tu, l’unica relazione autentica, gli impedì di vedere le dinamiche storiche reali, i conflitti basati sui rapporti di forza e il prezzo che si paga quando si coltiva una visione irenistica del mondo. L’amore per Sion era, in Buber, un ideale chassidico-messianico più che un progetto di Realpolitik.
Se compariamo la vita di Buber con quella antica di Yochanan ben Zakkaj o con quelle contemporanee di Karl Barth o di Paul Tillich in ambito cristiano, dice Rubenstein, restiano colpiti dall’irrilevanza degli insegnamenti buberiani o delle sue posizioni politiche sia in Germania sia in Israele. La storia è andata in una direzione diametralmente opposta a quella da lui auspicata: la sua inattualità sembra palese. “Forse la domanda vera che dobbiamo farci è perché Martin Buber abbia conquistato la prominenza mondiale che ha. Essa probabilmente rivela più cose su di noi che su di lui. E in fondo vi sono stati altri grandi leader e pensatori ebrei nel corso del XX secolo. Perché abbiamo messo una corona di alloro sulla sua testa? Se considero la vita e il pensiero di Buber nella prospettiva della Shoà, confesso – conclude Rubenstein – che non trovo una risposta a questa domanda. Di una cosa, tuttavia, sono certo: che abbiamo bisogno di lui. Il perché, non lo so”.
Chapeau, professor Rubenstein. Nonostante le nostre strade si siano divise e le nostre sensibilità e opinioni politiche divergano, lei resta un grande maestro.

Massimo Giuliani, docente al Diploma Studi Ebraici, UCEI