Società – La difficile strada dei diritti umani

torturaUn anno fa, nel luglio 2017, la Gazzetta Ufficiale pubblicava la legge n. 110, che introduceva nel nostro ordinamento la legge contro il reato di tortura (art. 613- bis CP), e di istigazione alla tortura (art. 613 CP). Veniva così colmato un vuoto legislativo e mantenuto un impegno internazionale che risaliva a molti anni addietro, e cioè da quando, nel 1984, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite aveva approvato a New York, la convenzione Contro la tortura e altre pene o trattamenti crudeli, inumani e degradanti, entrata in vigore tre anni dopo. Il testo della convenzione definiva innanzitutto la «tortura» in un modo molto specifico, che merita di essere riportato per intero. La tortura è dunque (art.1) «qualsiasi atto con il quale sono inflitte a una persona dolore o sofferenze acute, fisiche o psichiche, segnatamente al fine di ottenere da questa o da una terza persona informazioni o confessioni, di punirla per un atto che ella o una terza persona ha commesso o è sospettata di aver commesso, di intimidirla o esercitare pressioni su di lei o di intimidire o esercitare pressioni su una terza persona, o per qualunque altro motivo basato su una qualsiasi forma di discriminazione, qualora tale dolore o tali sofferenze siano inflitte da un funzionario pubblico o da qualsiasi altra persona che agisca a titolo ufficiale, o sotto sua istigazione, oppure con il suo consenso espresso o tacito. Tale termine non si estende al dolore o alle sofferenze derivanti unicamente da sanzioni legittime, ad esse inerenti o da esse provocate». L’approvazione stessa della convenzione aveva costituito un passo avanti di grande rilievo nel complesso panorama internazionale dove molte erano state le opposizioni: precisamente per questa ragione alcune importanti zone d’ombra erano rimaste, come appunto la decisione di lasciar fuori dal proprio ambito sofferenze inflitte «legalmente», come ad esempio – a parte evidentemente la stessa pena di morte – pratiche come la fustigazione o la mutilazione, ammesse in alcuni paesi. D’altra parte la condanna della tortura vi appariva inequivocabile: l’art. 2 stabiliva infatti, con grande chiarezza, che «Nessuna circostanza eccezionale, qualunque essa sia, si tratti di stato di guerra o di minaccia di guerra, d’instabilità politica interna o di qualsiasi altro stato eccezionale, può essere invocata in giustificazione della tortura». Lo stesso art. 2 impegnava ogni stato membro a «prendere provvedimenti legislativi, amministrativi, giudiziari ed altri provvedimenti efficaci per impedire che atti di tortura siano compiuti in un territorio di sua giurisdizione»: nel nostro Paese, tuttavia, il percorso che avrebbe infine portato alla legge n. 110 si è rivelato difficile, e particolarmente accidentato. Per molto tempo, infatti, parte consistente del dibattito politico, giuridico e istituzionale ha escluso la necessità di una legge specifica, nella convinzione che il sistema giudiziario fosse già strutturalmente in grado di impedire e reprimere pratiche di tortura nel senso indicato dalla Convenzione. Mentre negli anni la coscienza civile promuoveva iniziative pubbliche, manifestazioni e raccolte di firme in favore di una legge contro la tortura, molte proposte diverse si sono succedute senza raccogliere il consenso sufficiente. Il dibattito si è poi ulteriormente inasprito, sotto il peso dei pronunciamenti della Corte Europea dei diritti dell’uomo che ha sanzionato l’Italia in più occasioni, con riferimento particolare ai fatti di Genova del 2001 e della scuola Diaz. Il testo infine approvato in Parlamento, con la scontata opposizione del centro destra, era apparso a molti un compromesso politico al ribasso, ed aveva sollevato molte critiche, non solo da parte delle organizzazioni dei diritti umani ma anche da parte dei più autorevoli organismi internazionali, a causa di quelle che sembravano incertezze e ambiguità sostanziali. Così ad esempio il Comitato Onu contro la tortura, nel presentare a Ginevra nello stesso 2017 il proprio rapporto sulle raccomandazioni relative al rispetto della Convenzione, aveva pesantemente criticato la legge, in quanto «incompleta», tale da «creare spazi reali o potenziali per l’impunità», complessivamente «non conforme alle disposizioni della Convenzione» e dunque «da modificare». Nello stesso senso si era espresso Nils Miuznieks, commissario dei diritti umani del Consiglio d’Europa, lamentando le «profonde differenze» tra la definizione di tortura assunta dalla legge e quella prevista invece nella Convenzione, che pure l’Italia a suo tempo ratificata. Senza entrare troppo nel merito tecnico del problema, che richiede evidentemente il confronto puntuale con l’articolato, alcuni elementi appaiono immediatamente rilevanti. Il testo approvato dal Parlamento infatti, da un lato despecifica il reato di tortura commesso dai funzionari pubblici, punendo «chiunque» causi acute sofferenze fisiche (art. 1) e quindi, come è stato osservato, trasformandolo in un reato comune, con sensibili sovrapposizioni con le norme che regolano maltrattamenti in famiglia (art. 572 CP), e dall’altro introduce condizioni restrittive di difficile accertabilità processuale come la richiesta che di un trauma psichico causato alla vittima risulti «verificabile» ed affermando la punibilità solo nel caso della reiterazione delle condotte violente. Miuznieks raccomandava in particolare che «l’ampia definizione di tortura [adottata della legge 110], che ricomprende gli atti commessi da privati cittadini, non si traduca in un indebolimento della protezione contro la tortura commessa da funzionari dello Stato, data la particolare gravità di questa violazione dei diritti umani». L’intera vicenda esemplifica bene la difficoltà con cui l’impegno per il riconoscimento e la tutela dei diritti umani si va facendo strada, anche quando si tratta di diritti così assolutamente basilari e indiscutibili come il rigetto della tortura. Tanto più che proprio in questi giorni una delle formazioni di centro destra ha presentato una proposta di legge con la quale intende modificare il reato di tortura. In realtà la leader del partito aveva dichiarato in un tweet, presto peraltro cancellato, che l’obiettivo era piuttosto la sua abolizione, dal momento che il reato di tortura «impedisce agli agenti di fare il proprio lavoro». Che in un paese democratico il lavoro degli organi di polizia implichi il ricorso a pratiche violente tanto che il reato che sanziona e punisce queste pratiche costituisca un «impedimento» o sia fonte di «demotivazione», è un’idea che può a buon diritto apparire agghiacciante. Si dirà forse che non si tratta d’altro che un coup de thèâtre in mancanza di buoni argomenti e che non è da queste sortite estive che possono maturare pericoli reali. Ma è imprudente tranquillizzarsi così facilmente. In un momento in cui la politica sembra fatta soprattutto di annunci, l’idea stessa che formulare un simile annuncio possa risultare pagante in termini di consensi, è – in sé – un campanello d’allarme.

Enzo Campelli, Pagine Ebraiche, agosto 2018