Ticketless – Pecore matte

alberto cavaglionC’è grande bisogno di “pecore matte”, nei giorni in cui si commemorano le leggi razziali: “Se mala cupidigia altro vi grida,/ uomini siate, e non pecore matte,/sì che ‘l Giudeo di voi tra voi non rida”. Si ricorderà: i versi del Canto V dell’Inferno furono scelti come epigrafe per la rivista “La Difesa della Razza”. “Pecore matte” con orgoglio andavano e vanno definiti coloro che ieri s’opponevano a quell’obbobrio e, oggi, denunciano il razzismo strisciante. Convinto da sempre che la ricerca storiografica debba sempre partire da un’esigenza del presente ho ripreso in mano in questi giorni un lavoro abbandonato prima di concluderlo: un’antologia delle più belle pagine dell’antirazzismo nell’Italia unita. Una ricerca rimasta nel mondo delle belle intenzioni: si partiva dall’antirazzismo coloniale di Napoleone Colajanni e Arcangelo Ghisleri. Contavo di intitolarla proprio così “Le pecore matte”. Ora mi rimetterò al lavoro. Il razzismo coloniale e quello antimeridionale precedono infatti l’antisemitismo, così come a Trieste viene prima il razzismo antislavo. Sentendo l’altra sera Salvini parlare di “schiavi” notavo nel suo dire lo stesso disprezzo che molti triestini manifestavano all’inizio del Novecento contro gli “sciavi-slavi”. Poi naturalmente, in fila, nella mia antologia, una dopo l’altra metterò le pagine di quanti si opposero all’antisemitismo di Mussolini; figure che nelle ricostruzioni storiche di questi mesi non capisco perché sono lasciate nell’ombra: Franco Venturi, Emilio Lussu, Giuseppe Di Vittorio, Ernestina Bittanti-Battisti, ma soprattutto la più matta delle mie adorate pecore, Ernesto Rossi: «Il pensiero di tanti altri che avranno troncata la loro carriera e non sapranno a che santo votarsi mi ha fatto andar via ogni volontà di ridere», scriveva alla moglie il 9 settembre di ottant’anni fa. Se il sarcasmo era stato -fino ad allora- la cifra stilistica preferita per deridere il Duce, l’antisemitismo e la cacciata degli ebrei dai pubblici uffici segna un mutamento nel suo registro stilistico. Non sono molti gli intellettuali antifascisti che abbiano percepito in modo altrettanto lucido la gravità del problema. Nei diari, nei carteggi che conosciamo – anche di leaders e antifascisti importanti–si osserva, intorno al 1938, un imbarazzante silenzio di cui poco fino ad oggi s’è parlato. Anche dopo l’8 settembre l’antifascismo resistenziale sottovaluterà il dramma della questione ebraica. Anche di questo non capisco perché non si discuta mai. Sono lettere, quelle di Rossi, che vanno intrecciandosi con le coeve lettere ai famigliari di Vittorio Foa. Allarmano Rossi i destini di amici, colleghi: «A Firenze sono stati espulsi anche il Finzi e il Limentani, che conoscevo». Al razzismo Ernesto Rossi dedicherà riflessioni importanti anche dopo la guerra ne Il manganello e l’aspersorio. L’emigrazione ebraico-italiana derivante dalle leggi di Mussolini è da lui comparata, in modo ineccepibile, all’esilio verso l’Olanda degli ebrei toccati dalla «politica di fanatismo e d’intolleranza dei re spagnoli e francesi».

Alberto Cavaglion