Il nostro Sukkot
Finalmente quest’anno siamo riusciti a costruire la sukkà. Tecnicamente ce l’hanno costruita, a dire il vero, altrimenti sarebbe già volata via con noi dentro proiettati verso il mondo di Oz insieme a Dorothy. Ci si mangia con la giacca, per il freddo e il vento del quinto piano, e questo aiuta ad immedesimarsi un po’ nelle notti del deserto. Quarant’anni così poi e anche a dormirci, dice un bambino, non solo sette giorni a pranzo e a cena, se non è troppo freddo…ci va abbastanza bene, commenta.
Sì, aggiunge un’ospite, qui stiamo sicuramente meglio di quelli che stanno festeggiando Sukkot in Alaska. O a quelli, penso, che in ghetto neppure avevano lo spazio per la sukkà, e si arrangiavano costruendola nel secondo matroneo del Tempio, come a Siena, e rimuovendo una parte del tetto per collocare il sechach.
E noi, se piove, possiamo anche mangiarci solo un pezzo di pane e correre in casa.
E poi abbiamo, secondo la tradizione, anche degli invitati illustri che ci fanno visita, uno ogni giorno: Avraham che benedice con la bontà Am Israel nella sukkà, Yitzhak che rappresenta il rigore, Yakov con la bellezza, Moshè a ricordare l’eternità e con lui Aharon il quale simboleggia lo splendore. E ancora Yossef ad indicare il fondamento, ed infine re David con la sovranità.
Sì, siamo davvero fortunati.
Sara Valentina Di Palma
(27 settembre 2018)