…concerti
Non c’è dubbio che la normativa ebraica tradizionale si esprima in termini negativi circa l’opportunità che un ebreo entri in un luogo di culto cristiano. Come spiegava il rabbino Shlomo M. Brody in un articolo apparso sul Jerusalem Post nel 2012, l’opinione si fonda prevalentemente su Maimonide e Rabbi Yehudah Hahassid, due onorati e riconosciuti commentatori medievali che in sostanza indicano due problemi: il rischio della Avodà Zarà (idolatria, poiché la tradizione cristiana identifica Gesù con la divinità) e il cosiddetto Marit ‘ayin, cioè l’apparenza ingannevole, in questo caso la possibilità che si possa anche solo pensare che un ebreo stia compiendo atti devozionali in un tempio cristiano. I commentatori successivi hanno discusso di volta in volta su casi particolari come la partecipazione a cerimonie di incoronazione di sovrani o a funerali solenni (ci sono stati diversi casi di autorità religiose ebraiche che hanno agito in tal senso). Tuttavia in linea generale il divieto viene considerato ancora valido.
Fatte queste premesse di natura giuridica, la questione non sembra essere risolta poiché la normativa ebraica concerne solo un aspetto del problema e non tiene in considerazione i risvolti teologici, storici e politici della questione. Prenderei le mosse innanzitutto dall’ambito teologico, un tema che sta alla base del confronto e dei rapporti fra ebraismo e cristianesimo. Storicamente il cristianesimo nelle sue diverse forme ha elaborato una teologia – cioè una riflessione sulla natura di Dio – separata e in alcuni momenti in opposizione alla concezione ebraica. Nel suo essere un’emanazione dell’ebraismo e fondandosi almeno in parte sui suoi testi sacri (la Bibbia), il cristianesimo ha trasformato la rappresentazione di Dio mantenendola nel contempo astratta e non rappresentabile (come vuole la tradizione ebraica) ma anche incarnata nella figura di Gesù, compiendo in questo uno scarto notevole rispetto alla concezione originaria. La conseguenza, a partire dall’elaborazione teologica di Paolo, è stata la teorizzazione di un nuovo concetto di alleanza fra Dio e uomo (la nuova alleanza, che metteva da parte la vecchia) che si distaccava ulteriormente dalle premesse bibliche ebraiche. In questo contesto, la permanenza storica di una popolazione ebraica diffusa geograficamente nelle stesse aree su cui insistevano le nuove comunità cristiane, che elaborava una tradizione fondata sia sulla Bibbia sia sulle successive derivazioni giuridiche basate sulla Mishnàh e poi sul Talmud, hanno costituito a lungo andare un problema (per certi versi irrisolto) per l’ecumene cristiana. Detto in maniera più chiara, per fissare un primo principio: per il mondo cristiano l’ebraismo postbiblico costituisce un problema, una sfida teologica. Per lo più nella storia questo problema è stato risolto con la repressione. Negli ultimi decenni si sono aperte invece interessanti e proficue strade di dialogo.
E per gli ebrei? Come detto, il cristianesimo si è appalesato nel mondo come una delle possibili emanazioni della tradizione ebraica. Negli stessi decenni questa era tutt’altro che un gruppo monolitico e gli storici ci parlano della convivenza spesso conflittuale di farisei e sadducei, di esseni e chassidim, di caraiti e samaritani fino all’emergere di gruppi dalle caratteristiche ancora non chiare come le comunità di Qumran. L’affermarsi nei secoli successivi dell’ebraismo rabbinico fondato attorno all’elaborazione della complessa letteratura post biblica segue un percorso contorto e assai intrigante, ma che presenta solo pochi momenti di confronto con il cristianesimo, un’esperienza che sembra interessare poco al mondo ebraico. Sul piano teologico, infatti, l’ebraismo rabbinico non si pone il problema dell’esistenza di Dio (che è una precondizione data per acquisita) né quello della sua rappresentazione. Restano validi i principi fissati nelle dieci parole (i dieci comandamenti), Dio rimane non rappresentabile e principio primo. Resta inoltre immutata l’aspirazione a una futura era messianica. Di conseguenza sul piano teologico per l’ebraismo il cristianesimo non rappresenta una sfida e non pone interrogativi, o per lo meno non dovrebbe essere così. Nella pratica non fu e non è così perché storicamente il cristianesimo ha dato luogo anche a importanti derive politiche che hanno costretto gli ebrei – in quanto minoranza – ad aprire un confronto. Il cristianesimo diventa religione dell’impero romano, nascono nel medioevo stati cristiani, la chiesa diventa essa stessa un’entità politica e quindi legislativa. In quei contesti politici gli ebrei non possono non subire delle conseguenze pratiche e devono elaborare delle strategie di difesa. Le risposte sono complesse e articolate, ma in sostanza si fondano da un lato su una strategia di preservazione (accordo con il Principe, anche a costo di considerare deroghe alla restrittiva normativa tradizionale ebraica pur di assicurare una permanenza pacifica della comunità ebraica nel dominio cristiano: dina de-malkhuta dina), dall’altro sulla riaffermazione di principi fondamentali quali il divieto dell’idolatria e il marit ‘ayin come orizzonte teoretico fondamentale. Il che significa, per fissare un secondo principio, che nella storia gli ebrei (che hanno vissuto quasi sempre come gruppo minoritario e fragile) hanno tenuto e ripetuto saldi principi teoretici, ma si sono anche saputi adattare a situazioni delicate pur di preservare la propria continuità nel tempo come collettività.
Dopo la rivoluzione francese, con la nascita della società industriale e borghese, la perdita di centralità dell’orizzonte religioso ha determinato grandi cambiamenti sia nel mondo cristiano sia in quello ebraico. Da un lato si è assistito a un rafforzarsi di nuove e articolate forme di devozione, dall’altra all’indebolimento della prospettiva teologica. La nostra è l’epoca della secolarizzazione, nella quale Dio e la religione entrano in una dinamica privata, lasciando spazio a una gestione che diremmo laica degli aspetti della vita sociale non legati alle pratiche devozionali. In un simile contesto perde gran parte del suo peso la matrice giuridica della tradizione religiosa. Le classi sacerdotali e le guide spirituali delle comunità fondano la loro influenza sulle comunità religiose più sul carisma e sulla loro capacità di utilizzare e interpretare le antiche fonti della tradizione che non su un effettivo potere di indirizzo giuridico che fatalmente ha meno presa sugli individui e in genere – con la netta separazione fra Stato e Chiesa – non trova se non di rado qualche spazio nella gestione della cosa pubblica. Si tratta di un processo ancora inconcluso e a tratti riemergono contrasti e frizioni. Nel mondo cristiano si assiste a scontri su questioni quali la regolamentazione per legge dell’interruzione della gravidanza (che riguarda il concetto biologico della Vita), oppure l’esposizione in pubblico di simbologie religiose (il crocifisso). Nel mondo ebraico il contrasto più evidente e comune emerge sul tema della “continuità” della comunità, e quindi sui matrimoni misti e la trasmissione dell’ebraicità di padre in figlio.
In tale contesto e con tutte le premesse fin qui analizzate, si presenta il caso del concerto che la presidenza della Repubblica ha voluto dedicare a Tullia Zevi nel centenario della sua nascita, realizzato nella Cappella Paolina al Quirinale. Solo la comunità ebraica si è di fatto arrovellata attorno alla legittimità o meno di partecipare all’evento. Non c’è traccia di un dibattito avvenuto altrove se non nelle chat bollenti intercomunitarie e in qualche organo di stampa via web. L’ambiente giornalistico in generale e la presidenza della Repubblica non hanno proprio visto il problema, né lo hanno considerato meritevole di attenzione. Si tratta infatti di una questione tutta interna a due ambienti specifici della comunità ebraica italiana e del tutto irrilevante per un osservatore esterno. Per inciso, è un tema irrilevante anche per Israele che nella sua essenza di Stato politico fondato in gran parte (non del tutto, come è noto) su una legislazione secolare, lascia liberi i suoi rappresentanti di comportarsi secondo coscienza o seguendo principi diversi da quelli dettati dalla halachà, la normativa ebraica. Non desta quindi sorpresa se l’ambasciatore israeliano non ha trovato alcuna difficoltà ad assistere al concerto in una sala che in altri momenti viene anche utilizzata in maniera saltuaria (e non nel momento del concerto) per la celebrazione della liturgia religiosa cattolica.
I due ambienti ebraici italiani sensibili alla questione sono i cosiddetti ebrei laici (così definiti anche se con un termine impreciso) e gli esponenti del rabbinato affiancati da ebrei osservanti. Per i laici la partecipazione al concerto in quel luogo rappresenta un non problema perché il fatto che lì si celebrino riti liturgici non ebraici non incide in nulla sulla propria coscienza ebraica. Non vedono in pratica nessuna minaccia all’identità ebraica come singoli né come comunità (anche nella prospettiva connessa agli articoli dello Statuto dell’ebraismo italiano che parlano esplicitamente di dovere di continuità nella tradizione). Guardano quindi con forte preoccupazione alla presa di posizione pubblica della consulta rabbinica che ha giudicato non opportuna la partecipazione ufficiale dei vertici dell’ebraismo italiano a quel concerto in forza dei motivi che abbiamo detto in precedenza. D’altra parte i rabbini, richiesti di un pronunciamento ufficiale pubblico, non potevano che esprimersi in modo negativo poiché si muovevano in una prospettiva forzatamente e unicamente normativa, halachica. Veniva loro richiesto di dire se si può fare (se non fosse stato chiesto, con ogni probabilità non ci sarebbe stato alcun caso Cappella Paolina), e loro hanno semplicemente dovuto ribadire che no, non si può fare.
In tutto questo, tuttavia, sembrano essere del tutto assenti altri parametri di giudizio che pure hanno avuto un peso e un significato non indifferente nel corso della storia della civiltà ebraica. L’assenza di questo orizzonte nella discussione sembra piuttosto allarmante. Parlo in particolare della valutazione e del peso che l’ebraismo italiano è disponibile a dare alla sua storia come componente essenziale e costitutiva della sua esistenza oggi in varie e articolate forme nella Penisola italiana. La storia ha un suo significato e lascia tracce indelebili nella vita dei gruppi umani, compresi gli ebrei, che non sono un gruppo di marziani che si trovano per caso proiettati a vivere in ambienti a loro estranei. Non lo sono in Italia né in tutto il resto del mondo. Sono invece una collettività che nel corso dei secoli ha interagito con la società di maggioranza. Interagire significa essere parte attiva di un doppio flusso di informazioni che influiscono e modificano una propria ipotetica purezza originaria (peraltro difficilmente rappresentabile vista l’articolazione dei gruppi ebraici che hanno popolato la storia nelle diverse epoche). Gli ebrei hanno influenzato molto la civiltà italiana e l’hanno segnata con la loro presenza. Ne saranno testimonianza evidente la prossima mostra organizzata al MEIS di Ferrara sugli ebrei nell’Italia del Rinascimento che si inaugurerà nel marzo 2019, e la mostra sull’arte ebraica che è in preparazione agli Uffizi. In maniera speculare, anche gli ebrei sono stati influenzati da una civiltà come quella italiana (profondamente immersa nella cultura cristiana) e hanno assimilato forme e comportamenti caratteristici di quel contesto rielaborandoli in chiave ebraica. Le forme architettoniche delle sinagoghe e degli aronoth hakodesh, come pure le ketubboth o le steli sepolcrali o i magnifici manoscritti miniati, riproducono ad esempio le forme che si potevano ammirare nelle chiese in Italia. Il che – se vogliamo utilizzare uno sguardo antropologico – significa che gli ebrei di altri tempi non prendevano molto in considerazione il divieto di frequentare le chiese, ma anzi si ispiravano alla bellezza che in esse ammiravano. Non per questo erano meno ebrei. Sempre per considerare la centralità del divenire storico si dovrebbe inoltre tener conto di elementi che a rigore sono anche più minacciosi in relazione a ipotetiche e inesistenti forme di ebraismo originario. Si dà ad esempio il caso che anche in Italia abbiano abitato molti marrani e conversos che di generazione in generazione hanno convissuto conducendo parallelamente una vita ebraica e una vita cristiana (e l’ebraismo italiano usa celebrare queste figure: si pensi all’esperienza di Doña Gracia Nasi). Intere comunità ebraiche “originarie” sono debitrici storiche di questa commistione (Livorno, Venezia, Ferrara per dire delle più importanti). Ed è paradossale che questo elemento venga riconosciuto oggi a volte in pratiche conversionistiche da un rabbinato che in altri contesti non sembra considerare la storia come elemento fondante in forza del principio per il quale nella Torah non esisterebbe un prima e un dopo (Talmud Yerushalmi, Meghillah 1.5). Le chiese, i conventi, le pratiche religiose cristiane hanno fatto per secoli da cornice alla vita ebraica. Nelle chiese sono rappresentate in forma figurativa le storie della Bibbia secondo l’interpretazione cristiana, ma spesso è rappresentato anche l’ebraismo (la sinagoga velata dell’iconografia antigiudaica) o sono presenti gli stessi ebrei in forme più o meno caricaturali. Nel passato stare lontani da quella rappresentazione significava tenersi alla larga dalle forti pressioni conversionistiche cristiane, che costituivano il centro ossessivo che presiedeva ai rapporti fra cristiani ed ebrei. Oggi quella pressione è venuta meno, e impedire – come accade talvolta – alle classi delle scuole ebraiche in visita alle città italiane di entrare nelle chiese significa solo precludere loro la possibilità di toccare con mano le più straordinarie espressioni del genio artistico di questa terra e non incide in nulla nella preservazione della loro identità religiosa.
In definitiva si tratta di prendere atto, mettendo in essere altre categorie del pensiero di cui il Signore ci ha fatto dono (la logica, il divenire storico del tempo, il mutare delle sensibilità nel mondo contemporaneo, gli intenti politici), che esistono altri criteri di cui la halachà può tener conto nella sua espressione pubblica (la normativa ebraica offre infatti ampi spazi di manovra). Ci sono ebrei che per generazioni hanno partecipato alle liturgie cristiane e hanno preservato comunque nel tempo le loro radici e tradizioni ebraiche. Ci sono ebrei che sono stati nascosti nei conventi con nomi falsi nei mesi bui della persecuzione nazista e ne sono emersi più ebrei e – cosa ancor più importante – più vivi. Ci sono ebrei che hanno rielaborato musiche liturgiche cristiane in chiave ebraica senza intenti idolatrici, ed ebrei che hanno arricchito e arricchiscono ancora oggi la dinamica del dialogo ebraico-cristiano partecipando a conferenze in luoghi dove spesso si celebrano funzioni religiose non ebraiche. Tutte queste esperienze “inquinate” non hanno dato luogo in passato a indebolimenti nella devozione ebraica, che subisce ben altre influenze da parte di una secolarizzazione che colpisce in forma uguale tutte le religioni. Il non prendere atto di queste dinamiche può dare avvio a una deriva che vorrebbe che la legge ebraica ritornasse ad avere un ruolo politico nel governo della vita pubblica degli ebrei. Si tratta di un tema che genera scontri e contrasti di non poco rilievo in Israele, dove tuttavia si è perseguita la strada dell’istituzione di uno Stato, con una sua personalità giuridica e legislativa. Nelle piccole comunità della diaspora questo percorso sembra poco praticabile, mentre di certo è necessario considerare come una risorsa il divenire storico del quale i nostri avi sono stati protagonisti.
Gadi Luzzatto Voghera