La Giornata a Bologna
In viaggio con le fotografie

Oltre 70 fotografie a colori, realizzate da Alberto Jona Falco, che accompagnano i visitatori in viaggio alla scoperta del patrimonio architettonico ebraico italiano. Da nord a sud, da occidente a oriente le sinagoghe italiane si svelano, attraverso uno sguardo appassionato e curioso. Sinagoghe, arredi, oggetti legati alle feste e alla vita familiare capaci di far rivivere storie, tradizioni, vicende di personaggi e gruppi di persone, che raccontano aspetti della storia del nostro paese da una prospettiva tanto più interessante quanto meno nota ai più.
Sono le suggestioni che arrivano dalla mostra Gran Tour. Viaggio nell’Italia ebraica inaugurata ieri al Museo ebraico di Bologna in occasione della Giornata Europea della Cultura Ebraica. A intervenire sono stati tra gli altri il direttore del Museo Guido Ottolenghi, di cui riportiamo l’intervento, il presidente della Comunità Daniele De Paz e il rabbino capo rav Alberto Sermoneta.

In un libro di un certo successo, intitolato Sapiens, lo storico Yuval Harari si è chiesto qual è la singola caratteristica che meglio contraddistingue il genere umano e lo differenzia dalle altre specie, ed ha identificato questa caratteristica nella capacità di elaborare una narrazione, nel dare un senso, anche propagandistico o manipolativo, ma comunque nel dare un senso alle cose. È questa capacità di elaborare e condividere una narrazione che consente a una moltitudine di persone di cooperare e mantenersi coordinati verso obiettivi condivisi. La capacità dunque di dare un senso alla propria storia, di elaborarla, di scegliere cosa includervi ed escludervi, caratterizza il genere umano e gli consente di muoversi in una direzione, ma anche di adattarsi strada facendo. Naturalmente una narrazione può avere successo nell’indirizzare le masse anche se è basata su valori negativi, e l’esito nefasto e distruttivo di dittature e esperimenti sociali che negano la libertà e la dignità umana ce lo dimostrano continuamente.
I popoli dell’antichità che hanno lasciato una traccia di sé, non solo negli scavi archeologici, ma in quello che facciamo e pensiamo oggi, sono senza dubbio quelli che sono stati più bravi a elaborare una narrazione e ad usarla per dare uno scopo comune sufficientemente ricco di prospettive e di valori alla loro comunità. Omero o gli storici greci e latini non erano necessariamente accurati nella loro narrazione, ma col loro lavoro definivano la loro civiltà in un modo fecondo.
Senza far torto a nessuno, vorrei dire che la più longeva ed efficace narrazione, il più duraturo e potente progetto culturale che conosciamo è quello contenuto nella Bibbia, che insieme a precetti e comandamenti ci fornisce una storia morale dell’umanità, di respiro universale, da Adamo ed Eva attraverso il nomadismo, la pastorizia, l’agricoltura e le società urbane, e che continua a darci idee e senso di appartenenza.
La narrazione ha assunto una importanza sempre più grande nell’ebraismo poiché da quando si è disperso nel mondo, ha dovuto sopravvivere senza terra, senza esercito, senza pubblica amministrazione o sovrani. È stata proprio la potenza della narrazione a tenere in vita il popolo ebraico, la capacità di ricostruire di volta in volta la narrazione di fronte ai successivi rovesci: Babilonia, la distruzione del secondo tempio, le persecuzioni del medio evo, la cacciata dalla Spagna. Le guide di Israele hanno sempre, con maggiore e o minore abilità, mantenuto un legame tra il popolo, la su storia, il suo destino, e la sua utopia. Questa capacità di riconoscere la potenza della narrazione, e di usarla prevalentemente per il bene, è uno dei segreti della sopravvivenza e della forza culturale dell’ebraismo pur incarnato in una umanità sempre molto minoritaria. Essa si è manifestata in riti, come l’haggadà di pasqua, in modalità di studio come la discussione talmudica, che è tutta basata su storie da cui si traggono insegnamenti, nella tradizione omiletica e poi nei racconti chassidici.
Permettetemi di aggiungere una riflessione su una idea a mio avviso geniale e controintuitiva della narrazione ebraica: i popoli dell’antichità credevano fortemente nel potere del fato, e attribuivano le loro sconfitte alle circostanze avverse e al trionfo di divinità più potenti rispetto alla loro. Questo li rendeva vittime destinate e perdersi nella cultura del vincitore. Anche nella modernità si aggregano le persone attorno a un destino vittorioso e il successo è la miglior misura della bontà della narrazione. Se esso non si materializza o non dura, anche la narrazione si sgretola, o sopravvive per un po’ aggrappandosi a propagando o nostalgia. La Torah ci spinge invece a dare più importanza alle nostre scelte che al destino. Possiamo guardare indietro e commiserarci o guardare avanti e cercare di capire cosa fare meglio. Dare la colpa al fato, o ai nemici, o ai complotti, perfino se fosse vero, ci rende impotenti e ci priva della libertà. Dare la colpa a noi stessi ci libera del passato e ci apre il futuro. Nella parashà di Reeh (Deut. 11, 26-28) Mosè dice al popolo una cosa apparentemente banale: se ti comporterai secondo morale avrai benedizioni, se abbandonerai le leggi del Signore sarai colpito dalle disgrazie. Dice cioè che quel che ci succede dipende dalle nostre scelte morali. Cattive scelte generano cattive persone, che formano cattive società, e in tali società, nella pienezza del tempo, la libertà è perduta.
Geremia è il profeta che ci narra della sconfitta di Israele ad opera dei Babilonesi: qual è la sua narrazione? Dice che la forza del Paese non dipenderà dalla forza del suo esercito, ma dalla forza della sua società. C’è giustizia, compassione, o c’è corruzione? Le persone si preoccupano degli altri o solo di se stessi? D-o non ci salverà dai nostri nemici se noi non siamo in grado di salvarci dalla parte peggiore di noi stessi. E quando il disastro della distruzione del primo tempio venne, Geremia non vide in esso la sconfitta di Israele e del suo D-o come era uso presso le culture antiche, ma la sconfitta di Israele ad opera del suo D-o. “Tornate a Lui, e Lui tornerà a voi”. Questa idea della Storia, prendersi la colpa di ogni rovescio, ha imposto un costo psicologico pesante sugli ebrei. Ma questa narrazione ha dispiegato la sua potenza nei secoli: noi diciamo giornalmente nelle nostre preghiere: “a causa dei nostri peccati” ci capita quel che non vorremmo. Non è che non capiamo che ci sono ingiustizie e vittime, e che non è tutto colpa nostra (anzi…), ma la narrazione rivoluzionaria dei profeti ci dice che non è il fato, il determinismo storico, il peccato originale, la lotta di classe, la genetica a farci cadere: siamo noi stesi prima di ogni altra cosa. Solo rinunciando a definirci esclusivamente come vittime, cioè rinunciando a piegarci su un passato che è ormai immutabile, possiamo renderci moralmente liberi di proseguire il cammino verso il futuro, e trovare la forza di farlo non solo per tutta la durata delle avversità di una vita, ma addirittura attraverso le generazioni. Perciò ho detto che a me pare che questa caratteristica della narrazione ebraica sia controintuitiva e feconda.
Oggi, XIX Giornata Europea della Cultura Ebraica, troverete al Museo Ebraico e in Comunità tanti modi di riconnettersi al potere della narrazione, ma soprattutto spero vorrete prendere coscienza di come, nel bene e nel male, essa permei le nostre vite e plasmi il nostro futuro.

Guido Ottolenghi, presidente Museo ebraico di Bologna

(15 ottobre 2018)