…liturgia

“Schiudi le mie labbra. Le vie della preghiera ebraica” scritto da Haim Fabrizio Cipriani, rabbino presso la comunità Massorti/Conservative di Marsiglia e la comunità ebraica riformata di Montpellier e pubblicato da poche settimane da Giuntina, è un testo che viene a colmare un vuoto. È spesso difficile, nelle sinagoghe italiane, per le numerose persone che non hanno frequentato scuole ebraiche, o non hanno fruito di corsi all’altezza, oppure hanno studiato poco e male quando ne avevano la possibilità, seguire lo sviluppo della liturgia. Mi è capitato estremamente di rado di vedere qualcuno trai frequentatori assidui aiutare i novizi e gli ignoranti per qualcosa che vada oltre trovare la pagina giusta in un volume di cui molte volte non si padroneggiano neanche i rudimenti della lingua. “Schiudi le mie labbra” giunge quindi quanto mai a proposito, e contribuisce a colmare una lacuna che, almeno in Italia, era anche editoriale. Quella di Cipriani è, da una parte, una buona introduzione sulla preghiera nell’ebraismo di oltre 400 pagine che si sofferma in particolare sui testi più importanti, come Shemà e Amidà; dall’altra, però, è un libro disseminato di una quantità di spunti di riflessione che lo rendono lettura benefica anche per chi sa muoversi nell’argomento con un certo agio.
Spesso i temi essenziali sono affrontati nel volume a più riprese con un livello crescente di approfondimento, in base al principio ebraico secondo cui “girare intorno a qualcosa costituisca un modo di vincerne le resistenze e di penetrare al suo interno”, come mostrano analogicamente i sette giri con la striscia di cuoio dei tefillin intorno al braccio o quelli intorno alle mura di Gerico per farle cadere e conquistare la città. Viene sottolineato il valore pedagogico della preghiera ebraica, enfatizzato dai rabbini nei secoli della compilazione della Mishnà e dei suoi commenti, in modo da “educare l’uomo a uno stato di dipendenza costante anche nei momenti più normali in cui questo non gli appare evidente, anzi, in particolare in quei momenti”. Anche da qui la necessità di pensare alla preghiera come a un legame costante, un atto regolare che scandisce e modula i cicli del tempo, da quello quotidiano a quelli settimanale, mensile, annuale e oltre.
Indispensabile, a questi fini, l’ascolto nel senso pieno e coinvolgente della parola “shemà”: “ascoltare con una disposizione che permetta la comprensione” per “l’apprendimento di un silenzio che permetta di fare posto all’Altro, senza che siano i nostri desideri, il nostro punto di vista, la nostra voce, a fare da protagonisti”. Parimenti importante l’insegnamento pedagogico trasformativo, che è ancora lo Shemà a chiarire: “veshinnantam (dalla radice “shen”, dente) levanecha”, “le inoculerai ai tuoi figli”, in modo che siano completamente permeati di questi valori, e non ne abbiano solo una conoscenza distaccata. A fondamento stesso dell’ascolto accogliente e dell’insegnamento trasformativo, ecco finalmente lo studio, che distingue l’uomo dagli altri animali. Non uno studio isolato senza rapporti con il mondo e con gli altri, ma uno studio per l’azione. Uno studio performativo, insomma, al quale fa riferimento la massima del Talmud: “Grande è lo studio, perché porta all’azione”.

Giorgio Berruto

(18 ottobre 2018)