Dieci cose da sapere
Poiché grande è la confuzione sotto il cielo ma problematica è la situazione (per citare, capovolgendolo, un “timoniere” del Novecento) varrebbe la pena di rinfrescarsi la memoria su alcune cose, tanto per non perderci di allenamento. Poiché altrimenti il rischio è che le orecchie inizino fischiare, assordati come si è dagli acufeni ossessivi. Non è che si voglia fare la parte dei cani da guardia, i mastini del Golan; piuttosto, il problema è che il recinto va comunque costantemente ridisegnato. Sarà perché certe linee confinarie continuano ancora ad essere solo armistiziali. E per confini si parla non solo di quelli politici e sovrani ma anche e soprattutto di quelli mentali e simbolici. Quindi, per ciò che ci riguarda:
1) lo Stato d’Israele non è un prodotto del colonialismo ma dei processi di decolonizzazione. Non nasce grazie alla mano inglese o delle potenze occidentali, che all’epoca stavano levando le tende da quei territori, ma nel complesso fenomeno che dalla fine dell’Ottocento fino agli anni Sessanta del Novecento istituisce nuove sovranità. Se si scrive un manuale di storia, Israele va messo nel capitolo della decolonizzazione. Quanto poi quest’ultimo processo sia stato complesso, stratificato e difficile, ce lo dice la storia stessa. Il resto è solo un meschino gioco di parole, che cela la delegittimazione a prescindere.
2) Israele preesiste allo Stato. Storicamente, si definisce a cavallo tra il XIX e il XX secolo. Quando si arriva al 1948, Israele esiste già come comunità politica. La Dichiarazione d’Indipendenza, nel maggio del 1948, è il punto terminale di almeno settant’anni di storia ebraico-sionista. Non sancisce nessuna espropriazione ma la ricostituzione di una nazione politica, ovvero la definzione di una cittadinanza e di una sovranità.
3) Ogni nazione che si fa Stato presuppone un territorio. Altrimenti rimane allo stadio di pura idealità. Quanto una Stato nasce, ci sono gli inclusi e gli esclusi. Senza tanti giri di parole. Ad esempio, alla nascita d’Israele un congruo numero di ebrei dei paesi arabi furono esclusi. Dai loro paesi d’origine, di cui erano parte integrante. Va ricordato. Mica per stabilire equiparazioni o compensazioni. Solo per storicizzare. Altrimenti non si capisce nulla.
4) Alla momento delle scelte strategiche, che vanno dal 1947 al 1948, il rifiuto arabo nei confronti del futuro Stato degli ebrei era di pari intensità solo a quello nei riguardi di uno Stato palestinese. Le due cose stanno insieme, come le facce della medesima medaglia. Le élite dirigenti, quelle che facevano la differenza nelle società arabe, non solo non potevano (meglio: non riuscivano a) concepire la presenza di una società nazionale costituita da “inferiori” (pochi giri di parole: i “dhimmi” erano considerati ancora in questi termini, all’interno di un impianto politico dove le grandi famiglie arabe si giocavano le egemonie territoriali) ma trovavano d’imbarazzo l’eventuale nascita di uno Stato arabo-palestinese. Il fatto che ci fosserro gruppi di nazionalisti arabi nulla toglie alla sostanza del discorso. Poiché una élite può dare spessore culturale e identitario ad una nazione ma non si può sostituire ad essa quando questa non c’è.
5) L’idea di «Palestina» è una creazione moderna. Nasce progressivamente dalla dissoluzione dell’Impero ottomano, viene incorporata nel linguaggio mandatario britannico, costituisce poi solo nel corso della seconda metà del Novecento un etnonimo (il modo in cui viene chiamata una comunità nazionale, i palestinesi) che comprende una parte degli arabi di quei territori che furono prima ottomani e poi sotto vincolo britannico. Ciò nulla toglie alle aspettative e alle istanze di chi si riconosce in essa, a patto di non accompagnarle a finzioni, come l’affermazione che la nascita dello Stato d’Israele avrebbe conculcato il diritto all’esistenza di un’intera comunità nazionale, lì presente da sempre, cosciente di sé, quindi preesistente. Non fu così. Se invece fosse stato altrimenti, Israele non sarebbe nato. Poco ma certo. La legittimità e la congruità di un’intenzione le si misura, a distanza di tempo, non sulla scorta di mere pretese maturate nel tempo ma sulla concreta capacità di tradurre questa in azione politica. Il resto appartiene alla retorica dei complotti, alla fantasie delirante di chi non sa darsi ragione della sua concreta condizione, al bisogno di avere un “nemico” a prescindere.
6) La Shoah, in questa storia, francamente c’entra come il due di picche, con sommo rispetto parlando. L’affermazione che lo Stato d’Israele sarebbe un risarcimento con il quale gli “Stati coloniali” si sarebbero lavati la coscienza dinanzi allo sterminio da loro stessi in qualche modo generato, o lasciato compiere, nella Seconda guerra mondiale, è una scempiaggine che merita una considerazione al di sotto dello zero (termico): fa rabbrividire se non congelare. Altro discorso, invece, è la memoria del passato, ovvero come anche quella vicenda sia entrata a fare parte della coscienza di una nazione. E di altre ancora.
7) Israele non è uno Stato etico, ossia una comunità politica che impone ai suoi appartenenti delle condotte e, soprattutto, un’univoca linea di pensiero. Gli Stati etici sono quelli totalitari poiché sovrappongono la volontà dei “capi” ai tanti pensieri della collettività. Ne distruggono quindi il pluralismo. Soprattutto, intervengono – interferendo pesantemente – sulle scelte della vita privata, cercando di orientarne gli indirizzi di fondo su questioni fondamentali, fino ad arrivare a coartarne la volontà più intima. L’unica eticità che può essere chiesta ad uno Stato, inteso come insieme di apparati e funzioni di pubblico servizio, è la rispondenza ai valori fondamentali che le leggi di quello Stato incorporano. Israele è una democrazia liberale e sociale: «la democrazia è la peggior forma di governo, eccezion fatta per tutte quelle altre forme che si sono sperimentate finora», per intenderci. Per questo è convulsa, contraddittoria e quant’altro.
8) Chiedere ad Israele un surplus di “moralità”, un virtuosismo al cui cospetto giudicarne ogni passo, è il corrispettivo, mascherato moralisticamente, della ossessiva critica contro la sua stessa esistenza. Semplicemente ne sposta il fuoco, rendondola maggiormente plausibile e saccarinosamente accettabile. Qualsiasi condotta, pubblica o privata, deve sempre essere contestualizzata. Non per giustificarla aprioristicamente ma per comprenderne il senso. Chi domanda maniacalmente a Gerusalemme di essere l’alfiere di un’inesistente eticità pubblica – quella che corrisponderebbe al disporsi al sacrificio di sé e, soprattutto, dei suoi cittadini, nel nome di “valori assoluti” – in realtà ha già una chiara intenzione in mente, ossia quella di cancellarne l’esistenza.
9) Le scelte di un governo non coincidono con quello dello Stato nel suo insieme. La democrazia liberale presuppone sempre e comunque la dialettica tra maggioranza e minoranze, tra esecutivo, forze di governo e opposizione. Vale per la politica ma anche per molti altri aspetti della vita. Posta questa premessa indispensabile, le scelte di un governo sono il prodotto di una maggioranza parlamentare che lo sostiene (se così non fosse, il governo cadrebbe al primo passaggio in aula), la quale, a sua volta, è il prodotto della volontà degli elettori. Quest’ultima non è un totem assoluto ma l’esericizio di una prerogativa fondamentale, sempre nel limite delle leggi stabilite e condivise.
10) Che piaccia o meno in politica il realismo (di cui l’umanitarismo ben indirizzato costituisce parte integrante) è un ingrediente fondamentale. Serve a capire quali siano i rapporti di forza vigenti, le risorse disponibili, gli spazi praticabili. Certi treni della storia, d’altro canto, passano una sola volta. Chi non li prende, è destinato a rimanere alla stazione di partenza. Nella storia ebraica è successo. Qualcuno ha poi pensato che non fosse più il caso che ciò si ripetesse. Detto questo, tutto il resto può essere materia di discussione e contrattazione. A patto che ci siano interlocutori.
Claudio Vercelli
(21 ottobre 2018)