La fine di un negazionista

Robert Faurisson, il più famoso negazionista di quest’ultimo quarantennio è morto a Vichy il 21 ottobre, sulla soglia dei novant’anni. Cosa sia il negazionismo è abbondantemente risaputo per doverci tornare sopra. Almeno in queste pagine. Evitando profili biografici del tutto fuori luogo, un richiamo al metodo di negazione adottato da Faurisson può invece tornare utile, per comprendere la costruzione dell’offesa (ai morti e ai vivi), di cui è stato un esponente. Così già alcuni anni fa si scrisse nel volume «Il negazionismo. Storia di una menzogna» (Laterza, Roma- Bari, 2013 e successive edizioni): La vicenda di Faurisson inizia negli anni Sessanta ed arriva ai giorni nostri. Per più di una decina d’anni, tra il 1957 il 1969, è docente di letteratura nei licei francesi; negli anni successivi diventa maître assistant stagiaire e occupa la cattedra di letteratura contemporanea all’Università di Parigi III. Nel 1972 consegue il dottorato e dal 1973 al 1980 lavora come maître des conférénces all’Università di Lione II. Dopo di che, e fino al 1995, anno in cui va in pensione, viene distaccato, su sua stessa richiesta, al Centro nazionale di tele-insegnamento (poi divenuto Centro nazionale d’insegnamento a distanza), senza però svolgere nessuna attività di docenza. Dentro questa cornice, che lo colloca all’interno del mondo scolastico e poi accademico, si dipana la sua storia. Già nella sua attività di studioso della letteratura rivela ben presto una marcata propensione a cercare nei testi gli elementi che, a suo dire, connoterebbero una mistificazione dell’interpretazione corrente. Non a caso la sua attività di critico si rivolge alla «ricerca del senso e del controsenso, del vero e del falso» (Valentina Pisanty), quasi a volere marcare che la ricerca vada fatta non tanto dentro un documento ma dietro di esso, per poterne carpire il segreto che nasconderebbe. Iniziatore di quello che egli stesso, sulla scorta dei suoi studenti, chiama il «metodo Ajax» (dal nome del detersivo, a volere dire che in tal modo si ottiene una assoluta intelligibilità), basato sull’assunzione letterale del testo, decontestualizzato e slegato dallo stesso autore e dalle circostanze che l’hanno prodotto, fondato quindi su un ipercriticismo interpretativo, nella convinzione che solo così si possa pervenire alla effettiva conoscenza del suo reale contenuto, adotta questo opinabile metodo di investigazione letteraria anche alle fonti storiche. Per Rassinier si tratta di pervenire ad una conoscenza oggettiva, intesa come senso unico, inappellabile, fondato sul ricorso ad postulato interpretativo univoco di cui egli stesso si considera depositario. Da ciò gli deriva «una notevole propensione per la lettura sospettosa dei testi, che per lui nascondono sempre un segreto che qualcuno ha interesse a mantenere celato». Infatti, come afferma sempre Valentina Pisanty: «All’interno del sistema di valori che attivato da Faurisson l’interprete-eretico (cioè Faurisson stesso) viene investito della missione di strappare i veli a una realtà tenuta celata per troppo tempi in passato. Implicita in queste pagine è la strisciante accusa che la mistificazione di volta in volta denunciata non sia casuale, ma che sia il frutto di una consapevole falsificazione. I testi di Faurisson sono infarciti di espressioni relative all’inganno, al segreto, alla truffa, alla contraffazione e agli abbagli collettivi». Tra i suoi tanti critici alcuni parlano al riguardo di «delirio interpretativo» e «follia ossessiva», basate su un «pensiero fisso», laddove Rassinier apparterrebbe alla categoria degli «scienziati pazzi» (Jean Stenger). C’è chi invece ha ravvisato nel suo metodo una «nevrosi interpretativa» (Pisanty), che rifiuta il pluralismo delle letture sostituendolo con una sorta di fondamentalismo totalizzante, quello che deriva dalla propria chiave di interpretazione, eletta ad unico criterio autentico e, come tale, in grado di smascherare le mistificazioni di cui tutti gli altri interpreti sarebbero responsabili. Altri, più prosaicamente, lo definiscono come un «provocatore», alla perenne ricerca delle luci della ribalta. Di certo la convinzione di essere il portatore di una idea nuova e, come tale, capace di sbaragliare le interpretazioni precedenti, in grado di emancipare gli uomini dalla sudditanza alle “mitologie”, è il tratto più forte di Faurisson, che non a caso scriverà di sé e delle sue convinzioni che: «il revisionismo è la grande avventura intellettuale della fine del secolo»”.
La sua traiettoria personale si è adesso conclusa, ma non la stessa cosa può essere detta delle sue affermazioni, che continuano ad alimentare l’antisemitismo di ogni risma, soprattutto quello che il diffuso complottismo sta portando, purtroppo, a nuova auge.

Claudio Vercelli